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Salto nel buio al Los Angeles Times
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di Luca Celada
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Il recente passaggio di proprietà del conglomerato Tribune Co., la holding cui fa capo il Los Angeles Times, per 8,5 miliardi di dollari, ha segnato l'ultimo capitolo della dolorosa saga del secondo quotidiano d'America e apparente vittima sacrificale della crisi che attanaglia il giornalismo americano. L'acquirente del gruppo Tribune, proprietario oltre che del Times, del Chicago Tribune, di diversi giornali regionali, di una dozzina di emittenti televisive e la squadra di baseball dei Cubs, è il miliardario finanziere immobiliare Sam Zell, celebre rottamatore di proprietà seminaufragate da cui, attraverso acrobatiche operazioni di finanza, ricava rivendendole il massimo degli utili. Sviluppo non proprio rassicurante insomma e, come l'ha definito Tim Rutten, semmai «l'ultimo salto nel buio» per il giornale e per i suoi lettori che «negli ultimi cinque anni sono stati abituati a sempre meno e minore giornalismo da parte di un numero sempre più esiguo di giornalisti». Parabola discendente L'amarezza della redazione riflette la parabola discendente del Times che DJ Waldie ha definito istituzione essenziale per capire «ciò che significa essere un angeleno e definirci in relazione a questo luogo». Fondato 120 anni fa il Times è stato per molti decenni gestito dalla dinastia Chandler come uno strumento di tutela di interessi della fondante oligarchia cittadina negli anni del primo sviluppo della regione, poi come clava nelle feroci campagne antisindacali a servizio degli interessi padronali, organo politico profondamente conservatore perennemente alleato con le cause del grande capitale californiano. Ma negli anni '80 e '90 una politica di forti investimenti da parte di Otis Chandler, ultimo editore famigliare, aveva potenziato la redazione sollevandone la reputazione da giornale fazioso e prettamente regionale a concorrente paritario di New York Times e Washington Post, secondo giornale americano per lettori, autorevole e vincitore abituale di premi Pulitzer. L'inversione di rotta è avvenuta con la cessione 5 anni fa al conglomerato Tribune. La gestione di Chicago ha inziato da subito a taglieggiare il Times con uno spietato programma di esuberi e licenziamenti che ha portato i dipendenti da 5400 a 2800 e un proporzionale ridimensionamento delle ambizioni giornalistiche. Il giornale già promotore di indagini come quella su Wal Mart e sui predatori acquisti del museo Getty ha preso invece ad annaquare i propri contenuti potenziando gli articoli di «viaggi e vacanze», introducendo nuove sezioni dedicate a «moda e immagine» e perdendo alcune delle sue migliori firme emergenti fra cui la critica cinematografica Manhola Dargis e l'esperto d'architettura Nicolai Ourousoff, entrambi passati al New York Times. Diverse sedi di corrispondenza estera sono state chiuse nel nome del potenziamento della cronaca locale più «utile» ai lettori (nonché meno costosa e meno concorrente di altri giornali regionali di proprietà Tribune). Il supplemento letterario è stato dimezzato e ridimensionata è stata anche la sezione degli editoriali della domenica, il foro che ha dato espressione ad alcune delle posizioni più progressiste presenti sulla stampa americana nel dopo 11 settembre. L' abbassamento della qualità giornalistica ha prodotto una guerra aperta fra redazione e management di Chicago con conseguenti dimissioni di due direttori e un amministratore delegato nel giro dell'ultimo anno e un malumore sempre più diffuso in città dove il «l'occupazione» del giornale cittadino ha avuto l'effetto di far risaltare l'importanza di un'informazione non ostaggio di logiche puramente commerciali. Gli occupanti di Chicago Una coalizione di «impegno civico» presieduta dall'ex segretario di stato Warren Christopher è giunta a pubblicare una lettera aperta all'editore esortandolo a preservare il «ruolo di garanzia civica e democratica» che in un giornale deve «prevalere sui profitti a ogni costo». Nell'attuale paradossale situazione gli attacchi più violenti alla proprietà intenzionata a spremere ogni ultimo centesimo dal Times, provengono dallo stesso giornale. L'annuncio della vendita ad esempio è stato accolto sulle paludate pagine economiche con un dettagliato resoconto della consuetudine di Zell di acquistare case popolari, o meglio trailer parks i campi per «case mobili» usati da inquilini a basso reddito, sfrattarne gli occupanti e rivenderle a prezzi maggiorati. Lo stesso giorno l'opinionista Steve Lopez ha firmato un corsivo congratulandosi con Zell per l'acquisto del «nuovo giocattolo» segnalando però «che nessuno in questa redazione pensa a ciò che facciamo in questi termini. Il nostro giornale è un istituzione, forse la più importante di questa città, la cui missione è di tenere sotto torchio i politici, divertire, informare, provocare e fungere da foro pubblico». I fatti dimostrano invece che nell'amministrazione è prevalsa ancora una volta la concezione mercantile visto che al momento della vendita a Zell è stata respinta l'offerta paritaria avanzata da una cordata guidata dai miliardari Ron Burkle e Eli Broad intenzionata a riportare la proprietà del giornale a Los Angeles (speculatori anch'essi come ha scritto ancora Lopez, ma che avrebbero almeno dovuto rispondere localmente delle proprie azioni). Il nuovo capitolo che si profila ora per il Times non promette nulla di buono. «Di giornali francamente ci capisco poco» si è limitato a dichiarare Zell affermando che gli sembrava però un buon affare e che i settori in crisi costitusicono per lui una sfida tantopiù «stimolante». Effettivamente per lui l'affare si profila già molto vantaggioso, in sostanza la privatizzazione del gruppo mediante l'acquisto delle proprie azioni. I fondi per l'operazione proverrebbero in gran parte dai fondi pensione che erano stati messi da parte per i dipendenti, in cambio di nominali stock option. Con un investimento di appena 400 milioni di dollari Zell si troverebbe così a controlare un gruppo da 9 miliardi. Ricette sbagliate Quanto alla crisi «fisiologica» che investe tutti i giornali nell'era di internet, Zell ha recentemente dichiarato che se «tutti i giornali d'America impedissero a Google di rubargli gratis i contenuti» le fortune del motore di ricerca cambierebbero ben presto. Una visione piuttosto semplificata delle nuove strategie di valorizzazione di contenuti giornalistici in rete. La futilità della «tolleranza zero» è stata dimostrata dalla guerra che i discografici hanno perso coi peer-to-peer e ugualmente perdenti sono destinate a essere anche simili strategie repressive attualmente mosse contro YouTube dai network televisivi. Nel momento di un'ibridazione multilmediale comunque inevitabile, di un'atomizzazione dilagante in centomila blog, la concezione industriale del giornalismo esclusivamente come plusvalore e merce di scambio è quantomeno inadeguata oltreché contraria alla libera circolazione dell'informazione. Ad ogni modo è fuori dubbio, come ha sottlineato Rutten, che il futuro del giornale, di tutti i giornali, presuppone più che mai anche una disponibilità da parte della gestione a reinvestire potenziali profitti in adeguate risorse, mentre finora i padroni a ripetizione del Times hanno dimostrato solo venalità e miopia. «Se questa gente», ha concluso Rutten, «pensasse che ci fosse da guadagnare qualcosa vendendo il Times alla Corea del Nord, il giorno dopo la firma del direttore sarebbe quella di Kim Il Jong».da Il Manifesto |
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