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Al -mercatino- delle pistole
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Luca Celada
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Rampage, «atto spontaneo di violenza omicida», è il termine preferito dai network per definire il raptus improvviso di ragazzi armati nelle scuole. È significativo che esista la parola per descrivere l'omicidio plurimo indiscriminato, che le occasionali carneficine scolastiche vengano considerate una sorta di psicopatologia sociale in cui i risentimenti trovano sfogo naturale in terribili massacri. Un fenomeno che ha una scadenza quasi regolare nella cronaca, specie degli ultimi dieci anni. Il linguaggio si adatta alla necessità, così come accadde per il termine Going postal coniato per catalogare una certa «consuetudine» degli impiegati delle poste, suscettibili più di altri impiegati pubblici allo stress causato dalla ripetitività del lavoro. Negli anni '80 e '90 si verificarono episodi in cui postini insoddisfatti o licenziati si presentavano al posto di lavoro armati fino ai denti e davano sfogo al malessere esistenziale facendo strage di caposervizi e colleghi, con sufficiente regolarità da meritarsi la qualifica di «sindrome dell'era reaganiana». La categoria adolescenziale è più inquietante, con il suo mix di turbe psichico-emotive dell'età e di armi da fuoco ad alta efficienza che produce eccidi caratterizzati da un'apparente, nichilista insensatezza. La casistica è abbondante, dalla sparatoria di Brenda Spencer, sedicenne di San Diego che, improvvisatasi cecchina col fucile ricevuto come regalo di Natale dal padre, uccise nel 1979 il preside e il bidello della sua scuola e ferì nove compagni. La sua motivazione dichiarata - «non mi piacciono i lunedì» - divenne il titolo dell'omonima canzone di Bob Geldof e dei Boomtown Rats. Fu solo la capostipite di una macabra lista di bambini-killer, da Barry Loutakis che nel '96 fece tre vittime a colpi di pistola e carabina nella sua scuola media di Lake Moses, Washington, a Luke Woodham, che freddò due studenti e la propria madre l'anno dopo al liceo di Pearl in Mississippi, fino a Michael Carneal che appena due mesi dopo fece tre vittime e cinque feriti nel suo liceo di Paducah, Kentucky, all'età di 14 anni. Qualche mese più tardi, nel 1998, vennero imitati da Mitchell Johnson e Andy Golden, rispettivamente 13 e 11 anni, che, vestiti in uniforme militare e con un arsenale da guerra, uccisero 5 compagni e ne ferirono 15 mentre uscivano dalla scuola media di Jonesboro in Arkansas. Lo stesso anno il quindicenne Kipland Kinkel di Thurston, Oregon, uccise due compagni e i loro genitori. L'anno dopo Dylan Klebold, 17 anni, ed Erica Harris, 18, compirono la strage nel liceo di Columbine, che fino a tre giorni fa era l'episodio più tragico del genere. A ogni tragedia sono stati chiamati in causa squilibri psicologici, abusi emotivi e sessuali, bullismo, depressione. Imputati film, videogiochi, il rap e il metal, specie se suonati all'indietro schiudendo la piena forza dei contenuti satanici. Ma dietro all'angoscia profonda provocata da ogni nuovo episodio c'è la sensazione di uno squilibrio più profondo, culturale. L'impossibilità di ignorare il livello endemico di violenza come paradigma sociale. Lo ha ben detto Michael Moore: «Come americani la nostra consuetudine è di sparare prima e fare domande dopo. Mettiamo mano alla pistola come nessun'altra cultura. Lo consideriamo nostra prerogativa, il nostro destino manifesto». È difficile dargli torto. In quale altro luogo, pochi minuti dopo la peggiore sparatoria nella storia del paese, il presidente si sarebbe sentito in dovere di tutelare il sacrosanto diritto di portare armi da fuoco? Quando nel 1991 un simile massacro venne perpetrato da un folle all'interno di una tavola calda a Killeen in Texas, i texani si sollevarono indignati contro le norme sul porto d'armi che vietavano ai cittadini di portare le proprie pistole in locali pubblici. Se più avventori avessero avuto un'arma a portata di mano, ragionamento logico, sicuramente avrebbero potuto difendersi meglio. Quattro anni dopo la legge venne modificata secondo i loro desideri. Dopo Columbine, fu accertato che gli assassini avevano acquistato il proprio arsenale presso un Gun show, «mercatini» di armi da fuoco, dove non sono in vigore i controlli federali e dove quindi è molto più facile per un criminale o un minorenne acquistare una pistola. Bill Clinton, in seguito al massacro, tentò di far passare una legge che estendesse anche a queste fiere della pistola, roccaforte della Gun lobby, le restrizioni che impongono controlli sugli acquirenti, ma il congresso repubblicano respinse la proposta. Un'ulteriore misura a sostegno del secondo emendamento alla Costituzione introdotto nel 1789 per garantire ai cittadini il diritto di portare armi «essendo una milizia ben regolata necessaria alla sicurezza di un libero stato». Anacronismo assurto a sacramento inviolabile della lobby delle armi e vangelo della destra fondamentalista, inviolabile tabù che racchiude il volto cupo, violento e paranoico della nazione e la cui sola messa in discussione è capace di suscitare le reazioni più virulente dell'anima conservatrice d'America. Così, pur nel mezzo dei bollettini da guerra domestica (ma «in fondo ultimamente sono un po' meno frequenti...» ha detto qualcuno ieri alla radio del Washington Post), i già lievi controlli sulla vendita delle armi da fuoco imposti dal Brady bill - legge intitolata a James Brady, il portavoce di Ronald Reagan rimasto gravemente ferito nell'attentato al presidente del 1981 - sono stati ulteriormente allentati. Uno di questi ad esempio prevedeva fino a qualche anno fa un limite di 10 proiettili per caricatore da 9mm. Ma la legge è stata prescritta, così oggi sono tornati in legale commercio quelli maggiorati da 19 proiettili l'uno, che hanno molto contribuito all'efficienza omicida dell'assassino di Blacksburg. Lo slogan della Nra, associazione che «tutela» i 200 milioni di fucili e pistole attualmente in circolazione in Usa, diretta in passato da Charlton Heston, è che «non sono le pistole che uccidono la gente ma i malintenzionati». In parte hanno ragione, afferma ancora Michael Moore, che ricorda il tasso annuale di omicidi, che a New York 12 anni fa era di 2100. In seguito alle restrizioni sulle vendite di armi da fuoco il numero scese a 600, un buon risultato ma non la soluzione perché in definitiva «non sono le pistole che uccidono la gente ma gli americani», il popolo che al mondo detiene di gran lunga il triste primato di violenza «civile». Le ultime settimane di manovre preelettorali repubblicane hanno visto le acrobazie dialettiche di candidati moderati come Rudy Giuliani e Mitt Romney. Il primo, fautore della «tolleranza zero», ha affermato il diritto inviolabile al porto d'armi; il secondo, che non aveva mai sparato in vita sua, ha convocato in fretta i fotografi a una battuta di caccia per assicurarsi la simpatia della destra pistolera. Ora nel dibattito fra i candidati che si terrà il 3 maggio sarà forse necessario qualche riposizionamento alla luce dei fatti della Virginia. Difficilmente però si andrà al di là delle dichiarazioni di circostanza, a un effettivo ridimensionamento della Gun lobby.da Il Manifesto |
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