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Manipolazione dei mercati finanziari indagati analisti e dirigenti di S&P |
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Fuori una. Per il momento è quella sull’agenzia di rating Standard & Poor’s, per le altre due sorelle, Moody’s e Fitch è questione di giorni. La procura di Trani ha chiuso l’inchiesta sulla multinazionale americana che il 13 gennaio scorso, a mercati ancora aperti, declassò l’Italia (o, meglio, il suo debito pubblico) e altri paesi dell’Europa con un taglio del rating da A a BBB+. Manipolazione pluriaggravata e continuata del mercato finanziario le accuse del magistrato Michele Ruggiero che ha fatto notificare 5 informazioni di garanzia. Destinatari sono gli analisti Eileen Zhang e Frank Gill, dipendenti dell’agenzia con sede a Londra, e Moritz Kraemer, dipendente di Francoforte, il responsabile dei servizi per l’Europa e l’Africa Yeann Le Pallec e infine l’ex presidente di Standard & Poor’s l’indiano Deven Sharma. Il dubbio rimane: le agenzie di rating, chiamate ad analizzare la solidità economica di uno Stato, sono in grado di turbare i mercati economici internazionali quando formulano i loro giudizi, spesso infondati e imprudenti, a contrattazioni ancora aperte? Le indagini, lo ricordiamo, avevano accertato come lo stato italiano avesse risentito dei giudizi negativi espressi sul debito pubblico del Paese per ben tre volte da "Standard & Poor’s", il 20 maggio, il 23 maggio e 1 luglio del 2011, con la Finanziaria ancora in discussione. E’ probabile che i risparmiatori siano rimasti vittime della speculazione sui mercati e sui titoli di Stato crollati in seguito alla diffusione di questi giudizi negativi, puntualmente smentiti dai vertici politici ed economici del Paese. La convinzione degli inquirenti resta quella secondo cui "oltre all’approssimazione ci sia stata anche una possibile manipolazione" nel formulare report da parte delle agenzie internazionali di rating, chiamate ad analizzare la solidità finanziaria di uno Stato. Nel corso dell’inchiesta il pm ha ascoltato diverse personalità del mondo economico tra cui Giuseppe Vegas, presidente della Consob, che aveva inviato una lettera al capo dell’Esma, l’autorità europea per la sicurezza dei mercati, Steven Major, per chiedere se l’operazione dell’agenzia non fosse stata in contrasto con le prescrizioni che vietano la diffusione di giudizi a mercati aperti. Poi Maria Cannata, responsabile delle aste dei Bot per il ministero delle finanze, Maria Pierdicchi, capo dei servizi finanziari del Sud Europa per Standard & Poor’s. Fanno parte del coro delle cosiddette "reazioni qualificate" alle "pratiche" delle agenzie che declassano l’Italia e creano turbamenti sui mercati finanziari, nonostante i loro giudizi siano spesso smentiti dai vertici economici del Paese. L’Italia, lo ricordiamo, fu già messa a dura prova nel maggio del 2010 da un comunicato di Moody’s che a mercati aperti parlò di un economia a rischio perché contagiata da quella greca ormai in crisi. Quel filone di inchiesta è ancora in corso così come quello che riguarda l’agenzia di rating Fitch. Aperta anche (tutte e tre dovrebbero arrivare rapidamente a chiusura) anche quella sull’High Frequency Trading, il trading, cioé attuato con computer superveloci e algoritmi ultrasofisticati che determinano un vantaggio probabilmente non corretto a favore degli operatori che li usano. L’Hft potrebbe essere un altro strumento della speculazione per "abbattere" titoli o interi settori dei mercati con ingenti guadagni per chi lo controlla. NEW YORK - Che fine ha fatto l’inchiesta sul "falso downgrading" della Francia, una notizia errata, misteriosamente uscita dalla Standard & Poor’s, suscitando oscillazioni isteriche sui mercati? Chi ha guadagnato e chi ha perso dalle agitazioni speculative che nel novembre 2011 seguirono quell’infortunio - o presunto tale - della più grande agenzia di rating mondiale? Perché S&P non ha dovuto pagare indennizzi e risarcimenti? E quale spiegazione per un "errore" che dovrebbe essere impossibile? Qualche volta sono le "non notizie", quelle che dovrebbero interessarci di più, forse allarmarci. Le tempeste in corso sono ben visibili, monopolizzano la nostra attenzione. Dovremmo preoccuparci per i problemi irrisolti che sono diventati invisibili, scomparsi dagli schermi radar. Uno di questi riguarda l’immenso potere delle agenzie di rating, la loro responsabilità cruciale nello scatenare la crisi del 2008, il ruolo nefasto svolto in tempi assai più recenti nelle vicende dei debiti sovrani, e il coacervo di conflitti d’interessi in cui si muovono queste superpotenze della finanza. Sulle agenzie di rating si sta svolgendo una battaglia spesso nascosta, di cui i cittadini sono all’oscuro, nonostante che dall’esito di questa battaglia possa dipendere la stabilità dei loro risparmi, e perfino il "segno" sociale della politica economica di tanti governi. Riaccendere un faro su S&P, Moody’s e Fitch è essenziale anche quando i Padroni dei rating non fanno notizia. Anzi, soprattutto quando non fanno notizia: perché è in questo momenti di bonaccia che si fanno e si disfano giochi decisivi, sulle regole del futuro. Storia e cause di un potere. La loro storia accompagna fin dalla nascita lo sviluppo del capitalismo moderno. E’ nel 1909 che il signor John Moody divenne il primo analista finanziario ad assegnare voti alle obbligazioni emesse da una categoria di imprese, le compagnie ferroviarie degli Stati Uniti. Nei decenni successivi la pratica si diffuse, allargandosi a dismisura in parallelo con la crescita e la complessità dei mercati finanziari. Crac finanziari, scandali, insolvenze, consigliarono di rendere addirittura obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Fino alla situazione odierna in cui il "triopolio" S&P, Moody’s e Fitch dà i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati finanziari: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Incollando delle sigle fatte di combinazioni di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è cruciale. Tutti gli investitori del mondo si fanno in qualche modo guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Certi investitori istituzionali americani - come i fondi pensione e le compagnie assicurative che emettono polizze sulla vita - hanno per legge o per statuto sociale il divieto di acquistare titoli al di sotto di un certo "voto". Questo dà la misura dell’influenza delle pagelle. Quando di volta in volta i declassamenti hanno colpito Grecia, Portogallo, quegli Stati hanno subito la fuga di grandi investitori del mondo intero, rifinanziare il loro debito pubblico è diventato di colpo ancora più costoso, fino al default nel caso greco. Il megaconflitto d’interessi. Per il loro ruolo nefasto nella crisi dei mutui subprime le agenzie di rating sono finite nel mirino: inaffidabili, talvolta perfino disoneste. Fino al 2006 - l’ultimo anno dell’Età dell’Oro o presunta tale - S&P e le sorelle Moody’s e Fitch regalavano la "tripla A" con generosità. Il voto di massima solvibilità ce l’avevano perfino certi prodotti "strutturati", i famigerati titoli della "finanza tossica", con dentro crediti legati ai mutui subprime che si sarebbero rivelati inesigibili. Bastava pagare. Nel settore privato, le agenzie non lavorano gratis, il rating se lo fanno remunerare dalle stesse società emittenti di titoli. Questo non vale per la maggioranza dei debiti sovrani, dove non si verifica il conflitto d’interessi: forse, se Roma e Parigi pagassero per le loro pagelle finanziarie, avrebbero più voce in capitolo sui voti... Ma quando Mario Draghi cerca di sdrammatizzare i declassamenti, affermando che "non bisogna sovrastimare i cambiamenti dei rating", lo fa perché le parole di un banchiere centrale devono sempre scongiurare il panico. Nella realtà, la Bce si comporta diversamente. Basta consultare il suo manuale sull’"Attuazione della politica monetaria nell’eurozona", pagina 72 e successive, dove si spiega come la Bce valuta i titoli che le banche di deposito possono darle in garanzia, come "collaterale", per beneficiare degli aiuti di Francoforte. In quelle tabelle è scritto che il valore dei titoli è legato al rating. Indagini che scompaiono. Tornando alla crisi dei mutui subprime, che fine ha fatto l’indagine del Department of Justice sui rating di Standard & Poor’s, che doveva far luce su una serie di "rating impropri" assegnati ai bond legati a mutui immobiliari? L’ultima volta che questo "mostro di Loch Ness" apparve alla superficie fu nel Ferragosto dell’anno scorso. Poi: silenzio. Eppure si tratta di un’inchiesta importante, che ha avuto l’avallo della Casa Bianca: il Department of Justice agisce come pubblico ministero, ma dietro preciso mandato dell’esecutivo. La scelta dell’Amministrazione Obama è stata di perseguire un’inchiesta solo civile, non penale. Ma questa di per sé non è una debolezza. Altri procedimenti civili legati agli scandali dei mutui subprime sono già arrivati al termine, con patteggiamenti e multe di migliaia di dollari: tutte le grandi banche americane hanno pagato, perfino la potente Goldman Sachs oltre a JP Morgan, Citigroup, Bank of America. Le agenzie di rating? Niente. Eppure i procuratori federali hanno avanzato accuse pesanti: per esempio, quella secondo cui in passato certi analisti di S&P volevano assegnare dei voti bassi ad alcuni titoli della finanza tossica, ma i loro pareri furono ignorati per l’intervento di dirigenti superiori: nell’interesse del business. E chi ha visto l’altra indagine, sempre su S&P, che avrebbe dovuto spiegarci il misterioso e incredibile "incidente" sul "falso declassamento" della Francia? Era l’inizio di novembre 2011 quando dal quartier generale della più grande agenzia di rating americana partì una email che annunciava l’imminente downgrading del debito pubblico francese. I mercati reagirono, il nervosismo salì alle stelle, finché si scoprì che era tutto falso. Oops, scusateci, dissero quelli della S&P: come non detto. Tutto qua? Vi risulta che qualcuno abbia pagato per quell’errore macroscopico? L’avvio dell’inchiesta occupò l’attenzione dei media americani ed europei per qualche giorno fino a metà novembre, poi la creatura del Loch Ness è scomparsa negli abissi e non è stata più avvistata da allora. La requisitoria della Sec. A settembre qui negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission (Sec) aveva pubblicato un rapporto duro con le agenzie di rating. L’organo di vigilanza sulla Borsa, che in base alla nuova legge Dodd-Frank ha competenza anche sulle agenzie di rating, è tenuto per legge a relazionare il Congresso di Washington una volta all’anno sul funzionamento dei rating. Il quadro fornito nell’ultimo rapporto è terribile. Ecco alcune delle "piacevolezze" elencate nella relazione annua della Sec. In una delle maggiori agenzie di rating, a dare le pagelle sulla solvibilità di una società era un analista che era al tempo stesso azionista della società stessa: alla faccia del conflitto d’interessi. Un’altra agenzia di rating diede in anteprima ad "amici intimi" le anticipazioni su un imminente cambio dei suoi voti: insider trading. Una terza è stata colta in fallo perché i suoi rating venivano assegnati senza seguire le regole che lei stessa si era data. Accuse pesanti, ma con quali conseguenze? Nessuna, almeno finora. La stessa Sec aveva "depotenziato" in anticipo il suo rapporto al Congresso, decidendo di "secretare" nomi e cognomi. C’era il peccato ma non il peccatore: anonimato assoluto, i fattacci raccontati in quel rapporto non venivano legati esplicitamente a Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch o qualche altra agenzia (le tre che ho nominato sono le più grandi, insieme controllano il 95% del mercato). La giustificazione addotta dal capo della vigilanza Sec, l’italo-americano Carlo di Florio, è la seguente: "Non facciamo nomi perché pensiamo sia più efficace lavorare con ciascuna delle agenzie di rating affinché diano un seguito alle nostre scoperte e alle nostre raccomandazioni". Curiosa giustificazione, che usa un riguardo insolito nei confronti dei colpevoli, e nessun riguardo verso le vittime: forse i clienti delle agenzie di rating avrebbero il diritto di sapere qualcosa sugli errori madornali commessi. Nel frattempo, anche in Europa i buoni propositi per regolare i Signori dei Rating stanno arretrando paurosamente. Il commissario europeo al mercato interno Michel Barnier, responsabile di questa direttiva, incassa una sconfitta dopo l’altra: da ultimo ha dovuto rinunciare a imporre una rotazione fra agenzie, una regola che avrebbe dovuto aumentare un po’ la concorrenza. Non è chiaro se nella versione finale della direttiva europea resterà il principio di responsabilità, importantissimo per poter far pagare multe e risarcimenti ai Padroni dei rating in caso di errore. Tutte insieme queste notizie lasciano una sgradevole impressione. Retromarcia di Obama? Nella legge Dodd-Frank, così chiamata per il nome dei due principali firmatari ma fortissimamente voluta dallo stesso Barack Obama, all’inizio doveva esserci anche un giro di vite sulle agenzie di rating, ma al termine dell’iter legislativo quella parte era sparita come per incanto. E tuttavia era solo un rinvio, nel regolamento dei conti. Che l’influenza delle agenzie di rating fosse in declino, non era evidente perché l’esplodere della crisi dei debiti sovrani sembrava regalare al "triopolio" una visibilità e un potere perfino maggiore. Ricordiamo cos’è accaduto nella notte fra il 5 e il 6 agosto 2011, quando è stato annunciato il clamoroso downgrading degli Stati Uniti d’America. In apparenza, l’apogeo del potere dei Signori del rating. L’America umiliata e offesa. Il mondo che s’interroga sulle conseguenze. La Cina che chiede garanzie con toni minacciosi. Uno shock globale, uno schiaffo senza precedenti per la più grande economia mondiale. Le ripercussioni politiche: la destra americana che parla di "declassamento di Barack Obama", interpreta la perdita della "tripla A" sui titoli di Stato come un verdetto sul presidente e sul bilancio del suo governo. "Va licenziato subito il segretario al Tesoro Tim Geithner": all’unisono questa richiesta è lanciata dai maggiori candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012. Dal Tesoro Usa esce una reazione ufficiale molto stizzita. Tim Geithner accusa S&P di macroscopiche inesattezze nei suoi conti: "Un giudizio fondato su errori di calcolo dell’ordine di 2.000 miliardi di dollari si commenta da solo". Tuttavia una lettura attenta del documento di S&P che motiva il downgrading rivela singolari analogie con quanto poi la stessa agenzia scriverà a proposito di altre nazioni. Frasi sulla "inefficienza della risposta istituzionale al deficit pubblico", che compaiono nel rapporto S&P, lasciano capire che non è in discussione la capacità dell’America di ripagare i suoi debiti. Il giudizio è politico, Obama e l’agenzia di rating sono d’accordo che qualcosa si è rotto nel dialogo bipartisan. In passato, dalle situazioni di stallo fra un presidente e un Congresso di opposte tendenze, l’America usciva con compromessi e convergenze di segno moderato. Nello psicodramma dell’agosto 2011 sul debito invece si è verificata una situazione inedita: un pezzo del partito repubblicano, legato al movimento anti-Stato del Tea Party, avrebbe preferito senz’altro il default a qualsiasi concessione. Problema politico, dunque, non economico e neppure finanziario. Ma allora a che serve il rating, se è il riassunto di un’analisi politica su problemi di lungo termine, mentre non ci dà informazioni utili sulla reale solvibilità? Ecco, quel che accade nei mesi successivi è il vero inizio di un ridimensionamento nell’importanza dei rating. All’esplosione della crisi dell’eurozona nell’ultima parte del 2011, i Treasury bond Usa diventano il bene-rifugio per eccellenza, gli investitori ne fanno incetta, il loro valore sale. Alla faccia del downgrading! Chi si ricorda più quel clima da Apocalisse del 6 agosto? La punizione è solo rinviata? Nel frattempo una riforma almeno altrettanto punitiva sta passando negli Stati Uniti. Stavolta avviene alla chetichella, senza grandi dibattiti politici. Di fatto in sede di attuazione della legge Dodd-Frank, gli organi di vigilanza stanno "ripescando" alcuni dei progetti più audaci, che vengono reintrodotti all’interno dei regolamenti attuativi di quella legge. Così è accaduto che la Federal Deposit Insurance Corp., cioè l’ente pubblico che assicura i depositi e conti correnti (e come tale esercita anche alcuni dei poteri della vigilanza bancaria) ha stabilito che le banche maggiori devono smettere di usare i rating per valutare la rischiosità dei loro asset. Infilata dentro un regolamento attuativo, quasi di nascosto, questa è una regola rivoluzionaria. Cancella 70 anni di storia del capitalismo finanziario americano, durante i quali il ruolo dei rating si era allargato e consolidato a dismisura. L’uso dei rating era diventato obbligatorio per molti investitori istituzionali, per esempio i fondi pensione che spesso possono avere in portafoglio solo dei titoli con la tripla A. Ebbene, la Fdic adesso ha stabilito l’esatto contrario: i rating sono inaffidabili - dopo il disastro colposo o doloso dei mutui subprime - a tal punto che l’authority non vuole più siano usati: le grandi banche devono utilizzare metodi più seri e rigorosi per valutare la rischiosità dei loro asset. Questa nuova regola si applica alle 30 maggiori banche americane, quelle che hanno almeno un miliardo di dollari di attivi in bilancio. Fa parte delle norme varate per migliorare la difesa del sistema finanziario mondiale, contro il rischio sistemico. Per molti aspetti, l’editto della Fdic è l’equivalente di una condanna a morte per le agenzie di rating. Purché regga di qui al 6 novembre, data dell’elezione presidenziale, e non sia stravolto o svuotato in silenzio, sotto pressioni delle lobby in una fase in cui il loro potere è quello di staccare assegni per i candidati. NEW YORK - Il più recente cavo sottomarino installato nell’Atlantico, per collegare New York e Londra, costruito dalla Hibernian Atlantic, è riservato alle transazioni finanziarie. Servirà a far guadagnare "ben" cinque milli-secondi ai trader delle due principali piazze finanziarie del globo. Cinque milli-secondo sono un’eternità, nel mondo delle transazioni computerizzate. L’inaugurazione da parte della Hibernian Atlantic è avvenuta proprio mentre sono nel mirino dei governi le transazioni super-veloci e automatizzate, programmate attraverso appositi software informatici, e note come "high-frequency" o "high-speed" trading. Stati Uniti, Unione europea, Canada: sulle due sponde dell’Atlantico gli organi di vigilanza e le autorità di controllo sospettano che ci sia qualcosa di marcio nel mondo delle transazioni ad alta frequenza, che per comodità abbrevieremo d’ora in avanti come Hft. O quantomeno, vogliono più trasparenza e regole chiare, per impedire che la diffusione dell’Hft accentui a dismisura la volatilità dei mercati, con la possibilità di incidenti seri. La vittima inconsapevole dell’alta frequenza, infatti, siamo tutti noi: ovvero i risparmiatori che affidano in gestione i propri soldi a banche, fondi comuni, assicurazioni, le cui strategie d’investimento vengono travolta dai predatori dell’Hft. Sanzioni, multe e indagini si stanno moltiplicando, prima ancora dell’arrivo di nuove regole. Dagli Usa all’Europa diversi trader sono stati già puniti per manipolazione illegale dei prezzi. Il trucco più frequente, il più facile e meno rischioso: approfittando proprio dei milli-secondi di vantaggio che hanno sugli investitori normali (anche grossi investitori istituzionali come i fondi comuni, le banche), gli operatori dell’Hft piazzano i propri ordini in anticipo sull’arrivo di grosse transazioni, e così lucrano il vantaggio di chi conosce in anticipo la direzione in cui si muoveranno la domanda e l’offerta, l’aumento o la discesa dei prezzi. Ma ci sono altre dinamiche, più complicate e più sottili, che gli stessi operatori non controllano fino in fondo, e il pericolo lo si è visto ad esempio nella famigerata seduta del 6 maggio 2010, passata alla storia per l’improvviso tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones, senza una ragione precisa se non "l’impazzimento" dei programmi ad alta frequenza. Gli operatori di Wall Street e della City di Londra naturalmente respingono le accuse, ribattono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’Hft come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi e quindi abbassa il costo del singolo investimento. Questa è la classica autodifesa che attinge all’armamentario ideologico del neoliberismo: è un leitmotiv ricorrente dall’epoca di Milton Friedman e della scuola di Chicago che posero le fondamenta teoriche per il grande matrimonio fra le Borse e le tecnologie informatiche fin dagli anni ’70. Di questo Verbo neoliberista fa parte anche la convinzione che gli operatori del mercato sono i primi ad avere interesse alla regolarità delle transazioni, e quindi sono motivati ad autodisciplinarsi. (Qualcuno potrebbe ricordare che Alan Greenspan diceva la stessa cosa a proposito dei banchieri fino al 2007). A sostegno della loro autodifesa, i grandi hedge fund sono pronti a esibire qualche studio accademico che dimostrerebbe i presunti benefici dell’alta frequenza degli scambi automatizzati. Ma un’analisi compiuta sull’indice delle 500 maggiori società quotate (Standard & Poor’s 500 Index) ha dimostrato una formidabile crescita della volatilità, con oscillazioni sempre più alte all’insu e all’ingiù da quando esiste l’Hft elettronico. Tutto questo in coincidenza con un potenziamento tecnologico che ha ridotto nell’angolo l’elemento "umano" che opera sui mercati. La leva dell’Hft è decisiva per capire l’aumento nel volume delle transazioni: ancora nei primi mesi del 2007, prima della recessione e quindi con un’economia reale ben più florida di quella attuale, il volume degli scambi quotidiani sulle Borse Usa coinvolgeva 6 miliardi di azioni. Oggi siamo a quota 8 miliardi. L’aumento dell’incidenza dell’Hft è tale che oggi due azioni su tre vengono scambiate attraverso quei programmi ad alta velocità, in America. E sempre più spesso ciò avviene anche in altre Borse del mondo, a cominciare da quella di Londra. I casi di flagranza di reato sono ancora pochi, perché gli strumenti per indagare sono rudimentali. E’ un classico esempio in cui la caccia guardie e ladri si svolge in modo asimmetrico: è sempre il ladro ad avere una lunghezza di vantaggio in termini di know how tecnologico. Ma è interessante ricordare alcune punizioni. A Londra le autorità di vigilanza hanno multato per 8 milioni di sterline una società di trading canadese, la Swift Trade, per l’uso di una tecnica chiamata "layering". Si tratta dell’emissione di massicci ordini di acquisto o vendita, che poi vengono cancellati una frazione di secondo prima che vengano effettivamente eseguiti. La tecnica è molto in voga, si direbbe, perché poco dopo il caso londinese anche a New York la Financial Industry Regulatory Authority ha incastrato un reprobo. In quel caso si trattava della Trillium Brokerage Services, multata per 2,3 milioni di dollari. Stessa tecnica di "layering" anche per lei. La pratica della cancellazione repentina di migliaia di ordini poco prima che vengano eseguiti, è molto diffusa. E’ chiaro a cosa serve: prima i trader dell’Hft "sparano" sul mercato questi ordini voluminosi, sapendo che avranno l’effetto di spostare i prezzi, poi li cancellano e piazzano altre transazioni per lucrare sui movimenti di prezzi che loro stessi hanno provocato. Tutto questo è molto più raffinato e sottile dell’aggiotaggio vecchio stile, ed è possibile solo grazie alla tecnologia. Ma anche grazie alle evidenti lacune nella normativa. Per questo le norme stanno cercando di recuperare il ritardo. Negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission (Sec) ha varato requisiti di trasparenza più severi su tutti i trader di larghe dimensioni, chiedendo in particolare informazioni dettagliatissime sulle transazioni elettroniche ad alta velocità. In Europa la Commissione di Bruxelles ha presentato la proposta di direttiva "Mifid II" che va nella stessa direzione. Il commissario europeo al mercato unico, Michel Barnier, ha preso di mira in particolare i "dark pool" o "bacini oscuri", vere e proprie Borse parallele dove si stanno spostando molte transazioni Hft per sfuggire alla curiosità degli organi di vigilanza. Come le nuove regole della Sec, anche la direttiva Mifid II della Commissione europea si applicherebbe alle transazioni su ogni tipo di attività finanziaria: azioni, titoli pubblici, obbligazioni private, futures e derivati. Sarebbe un limite serio, per la prima volta da anni, al dilagare dei nuovi strumenti tecnologici. Ma di tutte le proposte di riforma in circolazione, la più efficace resta la Tobin Tax, cioè l’imposizione di un prelievo fiscale su ogni transazione finanziaria. La Tobin Tax avrebbe un’aliquota molto bassa, sicché l’impatto sul risparmiatore sarebbe insignificante. Ma essendo una tassa che scatta ad ogni operazione, il suo costo sarebbe invece tutt’altro che trascurabile per i colossi dell’Hft. Di fatto la Tobin Tax colpirebbe in modo spoporzionato proprio loro, i grandi squali delle transazioni alla velocità della luce, quelli che non hanno bisogno di fare insider trading perché ci bruciano sul traguardo sapendo già quel che facciamo noi. Guarda caso, il dibattito sulla Tobin Tax appare e scompare, ma finisce sempre su un binario morto. E’ forse l’unico caso di una tassa che piacerebbe "al 99%", ma l’1% che ne blocca l’approvazione ha dimostrato di avere un potere di veto finora insormontabile. |
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