Paolo Spagnolo, profilo di un artista
 







di Rosario Ruggiero




Paolo Spagnolo

Il 2 maggio 2012 batteva l’ultimo colpo il cuore ottantaduenne di Paolo Spagnolo, concertista napoletano di massimo livello. Aveva così termine il pianismo lungo oltre un quarto di secolo di un artista che già all’età di cinque anni veniva documentato da una ripresa cinematografica della Film Luce, a sette anni si esibiva in una serie di concerti negli Stati Uniti, a sedici si diplomava con ben quattro anni di anticipo, per meriti eccezionali, grazie ad una speciale sessione di esami istituita dal ministro della Pubblica Istruzione, lo stesso anno partecipava al Concorso Internazionale di Ginevra risultando secondo, l’anno seguente vi si ripresentava conquistando il primo premio e unendo in tal modo il suo nome a quello di Arturo Benedetti Michelangeli, già lì vincitore, diciannovenne, nel 1939, iniziava quindi le incisioni discografiche per la Cetra italiana e per la britannica Decca, si dedicava poi all’insegnamento presso il conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli per tornare infine più volte in sala di incisione a partire dal 1990, lasciando così il suo testamento ultimo di esecutore.
Un’arte di suonare il pianoforte, la sua, tecnicamente strepitosa, di chiarezza massima, al servizio di una musicalità sensibile ed analitica che prediligeva la sonorità asciutta e vigorosa, pur capace però di sorprendenti morbidezze e sommesso timbro di incanto, dalla parsimoniosa utilizzazione del pedale destro dello strumento, l’uso spregiudicato del pedale centrale e generosa di effetti sonori inaspettati e suggestivi. Si ascolti, a dimostrazione, il fascino sonoro del primo preludio da “Il clavicembalo ben temperato” di Bach, l’estrema intelligibilità architettonica della fuga che segue e l’attenzione espressiva con la quale ne viene seguita ogni nota del tema, la chiarezza del ventunesimo preludio della stessa raccolta, la varietà timbrica nella “Danza negra” di Scott, il lirismo dell’Adagio di Marcello trascritto da Bach,
della canzone n. 6 di Mompou, l’incisività ritmica della danza che le succede, i particolarissimi effetti di suoni staccati in alcuni momenti dell’accompagnamento del valzer op. 42 di Chopin e nella parte centrale del quinto brano di cui si compone la raccolta Kreisleriana di Schumann incisa nel 1990, la forza travolgente del settimo brano della stessa, l’effetto prodotto dai primi suoni della sonata di Liszt che le due mani eseguono insieme, ottenuto, inaspettatamente, cessando il suono prodotto da una mano poco prima di quello prodotto dall’altra, e tanto altro ancora.
Summa teoretica della sua concezione dell’interpretazione musicale al pianoforte, il libro “Pianosophia”, scritto con il filosofo Giovanni Stelli, nel quale viene sciorinata dapprima l’evoluzione storica della tecnica pianistica, quindi proposta una modalità di approccio allo strumento, allo studio del testo musicale, alla maniera di porsi come interprete, per concludere con una disamina dei vari modi esistenti di
intendere l’interpretazione musicale. Un interessante volume tutto imperniato sulla priorità assoluta della musica, del pensiero del compositore e dell’umiltà dell’interprete ai fini della risoluzione di ogni problema tecnico e dell’adozione di qualsiasi scelta interpretativa che assume così, in questa ottica, sempre valore di necessità, mai di arbitrio.
Tutti questi, però, sono elementi biografici e stilistici facilmente accessibili a chiunque dai dischi, dai siti informatici e dal libro testé illustrato. Ciò che però, forse, potrà ulteriormente rifinire e confermare la figura di questo musicista è il riferimento di episodi a lui attinenti e di sue affermazioni da parte di chi, come chi qui scrive, lo ha personalmente conosciuto e frequentato, testimonianze veraci della realtà musicale, intima ed esteriore, vissuta dal maestro.
Proprio uno di questi episodi fu quando, folgorato da recenti ascolti, allora più rari che oggi, di interpretazioni pianistiche registrate di Sergei
Rachmaninoff, ebbi a chiedergli se avesse mai ascoltato, intendendo in cuor mio da incisioni discografiche, il grande pianista russo. Mi sentii rispondere con la semplicità di chi ha vissuto con abbondanza e naturalezza certe condizioni, di non aver potuto ascoltare mai Rachmaninoff al pianoforte, egli però intendeva in concerto, ma di essersi trovato bambino negli Stati Uniti ad esibirsi in una sala dove, l’indomani, o comunque poco tempo dopo, il piccolo napoletano già partito per altri concerti, Rachmaninoff avrebbe suonato. Spagnolo ricordava, con quel piacere intriso di lieve nostalgia che suscitano certi ricordi, che in quell’occasione uscì un articolo di giornale che comparava il giovanissimo pianista con quel gigante del concertismo, paragonando l’esibizione del fanciullo ad una deliziosa chiesetta di campagna, il concerto del grande virtuoso di Novgorod ad una immensa cattedrale gotica.
Ricordo pure una affermazione didattica che gli sentii rivolgere ad un allievo nel
corso di una lezione dicendogli che l’alunno non deve, col suo modo di suonare, far ricordare troppo il maestro, significherebbe che ne è una sorta di imitazione, in virtù di ciò priva di particolare significato artistico, a sottolineare la preziosa individualità dell’interprete, individualità da tutelare, seppur sempre nel pieno rispetto della musica e delle intenzioni dell’autore. Individualità dell’interprete che Paolo Spagnolo, come insegnante, rispettava effettivamente giacché, in un rapporto di scambi reciproci di ascolti che spontaneamente volle istaurare con me ed insegnamenti che gratuitamente mi onorava di elargirmi, migliorava con utili suggerimenti le mie esecuzioni perfezionando le mie personali scelte interpretative e stilistiche, per quanto diverse dalle sue, senza mai volermi condurre al suo individuale modo di suonare.
Così come tutto il suo rispetto per l’autore, per la musica e la sua umiltà di artista vennero per me fuori lampanti il giorno che, dopo avermi
ascoltato eseguire il primo movimento della sonata op. 110 di Beethoven, commentò che la mia esecuzione era forse anche più bella, ma la sua era, a suo avviso, certamente più beethoveniana. Sentirsi, poco più che ventenne, dire questo da un concertista ben più anziano e di così gloriosa carriera, che avesse torto o ragione, se non è umiltà dell’uomo e dell’interprete da un lato, e priorità del rispetto per le intenzioni artistiche dell’autore dall’altro…! Umiltà e rispetto sottolineati anche in “Pianosophia” quando sostiene che una esecuzione musicale non deve risultare particolarmente veloce all’ascoltatore, la velocità risultando in tal caso, evidentemente, sovrapposizione di bravura esecutiva, avulsa dal contenuto emozionale precipuo della pagina, lusinghiera per il virtuoso esecutore, fuorviante rispetto al più autentico messaggio artistico. Questo spiega anche l’altra sua affermazione secondo la quale quando suonano alcuni pianisti si esclama “che bravo!”, quando suonano altri “che bello!”.
Sempre a proposito di rispetto dell’autore e della musica, mi fu riferito una volta, di una lezione in cui un allievo di Paolo Spagnolo risolveva tecnicamente la difficoltà di essere preciso nell’eseguire velocemente gruppi di suoni distanti tra loro sulla tastiera realizzando una breve attesa tra un gruppo e l’altro onde poter preparare le dita sui tasti e garantirsi la precisione dell’esecuzione, ma evidentemente spezzando fastidiosamente, in questo modo, lo scorrimento musicale. È d’altronde un espediente a cui non pochi, in simili circostanze, ricorrono. Paolo Spagnolo censurava tenacemente quell’attimo di pausa, quella libertà esecutiva meschinamente funzionale. L’allievo però non riusciva a farne a meno. Infine sbottò. Diversamente era estremamente arduo garantire precisione. E Paolo Spagnolo, immediato, con una espressione in realtà più brutale: «Ti arrangi!». Come dire, i problemi ed i limiti personali dell’esecutore non devono danneggiare la musica, tanto più
l’ascoltatore.
Infine un pianista oramai prossimo al diploma decise di prepararsi a quella importante prova sotto la guida del noto concertista. Stava studiando una composizione dove era richiesto alla  mano destra, dando anche all’ascolto un senso di grazia e serenità, di mantenere un tasto abbassato con il pollice, mentre l’indice, insieme all’anulare, ed il medio, insieme al mignolo, si avvicendavano continuamente ad abbassare altri tasti. Difficoltà di dissociazione digitale decisamente notevole che il giovane pianista non riusciva a superare correttamente pur avendo già adottato le più svariate strategie di studio risolutrici che si possono praticare all’uopo. Mi raccontò poi che Paolo Spagnolo lo invitò semplicemente a non fossilizzare tanto l’attenzione sull’evidente difficoltà digitale, ma di pensare principalmente al risultato sonoro che voleva ottenere, insomma, alla musica, e gli cantò brevemente la melodia così come doveva venir fuori. Fu una panacea.
Istantaneamente all’allievo il passaggio riuscì e, da allora, sempre, e senza sforzo, chiara dimostrazione della musica come priorità ed insostituibile traino dell’esecuzione.
E per concludere mi è caro ricordare quando ascoltando nel suo studio alcune sue registrazioni giovanili fui particolarmente impressionato da una dove percepivo la mano sinistra suonare con l’alone sonoro tipico dell’uso contemporaneo del pedale destro del pianoforte mentre la mano destra eseguiva velocissimamente suoni separati l’uno dall’altro come se in quella zona della tastiera l’uso del pedale non avesse alcun effetto. Era un risultato per me possibile solo utilizzando contemporaneamente due pianoforti. Paolo Spagnolo mi spiegò, e mi fece anche vedere praticamente, che se si percuote la parte sinistra della tastiera, quella dei suoni gravi, con il pedale destro abbassato, quello che permette ai suoni prodotti di continuare a vibrare pur avendo lasciato la tastiera, seppur, lasciata la tastiera, si
abbandona quel pedale per un brevissimo momento, ma lo si riabbassa subito, i suoni già prodotti non hanno il tempo di spegnersi e si rigenerano. Non così avviene sul lato destro della tastiera dove i suoni sono meno corposi e, sebbene si operi allo stesso modo, cessano subito, irrimediabilmente. Paolo Spagnolo eseguiva quindi quel passaggio alzando ed abbassando rapidissimamente il pedale destro dopo ognuno dei brevissimi suoni eseguiti dalla mano destra, sì che questi morissero subito e risultassero all’ascolto divisi l’uno dall’altro, quelli gravi, affidati alla mano sinistra, continuando invece imperterriti a vibrare ed a godere dell’uso rinnovato del pedale. Intuizione tecnica, fantasia creatrice, elevatissima perizia tecnica. Ed il pianoforte superava così i limiti tecnici conosciuti per arricchire le sue possibilità espressive.
Ed ora? Le sue mani non si poseranno più sulla tastiera di un pianoforte, il suo cuore non batterà più alle vibrazioni delle corde, la sua fantasia
non volerà più sulle ali della musica. Con Paolo Spagnolo muore un uomo; gli sopravvive, esemplare, il suo messaggio di arte.