L’inganno della competitività
 











In uno scenario economico globalizzato e devastato dalla finanza affamatrice ed apolide, disquisire di competitività, produttività ed efficienza ha senso non tanto con riferimento a singole aziende o a specifici prodotti di un determinato paese, quanto al confronto tra segmenti produttivi e settori merceologici aggregabili per zone geografiche omogenee o per comuni aree monetarie.
Queste righe probabilmente disturberanno i benpensanti del libero mercato, i sostenitori della mano invisibile, i detrattori di Keynes e dello stato imprenditore o, comunque, i critici “senza se e senza ma” di ogni forma di intervento pubblico di riequilibrio nell’economia. Vizio intellettuale o malafede di costoro è, infatti, costituito dalla convinzione che la competitività non possa che coniugarsi e relazionarsi funzionalmente a mercato, liberismo, produttivismo e deregulation per meglio adeguarsi e sottostare alle incostanze ed alle ciclicità della
domanda.
Poiché competitività, oltre che vantaggiosità, significa concorrenza, imprescindibile diviene – da parte dei competitors – l’adozione condivisa di regole conformi alla lealtà, alla correttezza ed alla par condicio.
Invece – ecco la criticità che si intende rilevare – le forze dell’economia deregolata non solo tendono fisiologicamente ad accentuare le disparità di condizioni nei rispettivi mercati di riferimento, ma determinano – in ordine alla redistribuzione della ricchezza – il paradosso secondo il quale mentre reddito e consumi delle famiglie e fiducia dei risparmiatori diminuiscono, i bilanci ed i profitti delle imprese registrano spettacolari incrementi a dir poco imbarazzanti.
Insomma, dividendi alle stelle e Pil a zero o sotto zero, specchio di una recessione profonda e persistente: questa, in sintesi, una situazione macroeconomica spiegabile anche con il ricorso alle produzioni delocalizzate, le quali gonfiano attese e profitti per gli azionisti, ma non si
traducono, se non marginalmente, in crescita del prodotto nazionale. La febbre da competitività ha finito, ormai, per contagiare non soltanto i sistemi produttivi occidentali, dunque quelli storicamente e socialmente più sensibili ed esposti al minaccioso assalto commerciale dei paesi emergenti, ma anche quelli di questi ultimi.
Da anni, infatti, ben prima dello scoppio della bolla immobiliare e creditizia del 2007-2008, le imprese cinesi hanno iniziato a delocalizzare alcuni segmenti produttivi – specialmente a basso valore aggiunto – in altri paesi del Sudest asiatico dove i costi della mano d’opera risultano sensibilmente più bassi, prefigurando scenari globali improntati ad una scriteriata rincorsa verso l’abisso.
Abisso di costi, ma anche di sicurezza, di standard qualitativi e di protezioni sociali.
Allora – paradosso nel paradosso – la tutela ed il rispetto di norme certe ed uguali per tutti che garantiscano quella “par condicio competitorum” non possono che essere
favorite dall’arretramento del mercato liberista e dei suoi vizi congeniti e dalla contestuale maggiore assunzione di ruolo e responsabilità da parte del regolatore pubblico per eccellenza.
Ciò permetterebbe di contrastare efficacemente – attraverso mirate politiche fiscali (tassando, ad esempio, i sovrapprofitti realizzati attraverso le delocalizzazioni), politiche monetarie (agendo sul livello dei cambi e del costo del denaro), politiche sociali (difendendo lavoro e famiglie dal dumping) e politiche commerciali (ricorrendo, in ultima istanza, ad un virtuoso e regolato protezionismo) – sia la concorrenza predatoria di imprese di aree geografiche che fanno della scadente qualità la chiave del loro successo nella conquista (competitiva, appunto, in termini di costi) dei nostri mercati, sia l’azione simbiotica e al contempo parassitaria degli hedge funds a caccia a quattro angoli del pianeta di differenziali (spread) di plusvalore da garantire al capitale finanziario.
Smarcarsi
dalle insidie di questa trappola (oltre che economica, anche psico-mediatica e culturale) e concentrare gli sforzi commerciali e politici sulla qualità rappresenta la difficile sfida controcorrente da combattere ad ogni livello contro le vecchie e nuove miopi vestali della economicamente corretta competitività.
Un’azione – nel caso italiano – ancora più ardua poiché da intraprendere per fronteggiare le politiche di un governo antisociale che nominalmente asserisce di perseguire competitività e produttività, ma che in realtà, con il comodo appoggio di Bce e Ue, sta creando de jure le condizioni favorevoli (dalla riforma delle pensioni ai licenziamenti, dai tagli di spesa al pareggio di bilancio) per attirare gli investimenti delle potenze coloniali atlantiche e delle loro pregiate valute.Stefano de Rosa