Il "lavoro che cambia": un inchiesta Ds
 







Vittorio Rieser




Redazione
lavoro, lavoratori

L'inchiesta DS sul 'lavoro che cambia'* Nell'estate 2002 i DS hanno promosso un'inchiesta sul 'lavoro che cambia'. L'intento dichiarato era quello di ricostruire una conoscenza aggiornata del mondo del lavoro, che - si riconosceva - era ormai molto carente. Anche per questo, all'inchiesta ha partecipato un gruppo di ricercatori di diversa estrazione politica, tra cui il sottoscritto.
Il questionario dell'inchiesta è stato pubblicato su "l'Unità", con la possibilità di restituirlo per posta; è comparso sul sito Internet dello stesso giornale; è stato distribuito in molte feste dell'"Unità", a partire da quella nazionale; infine, è stato distribuito in numerosi luoghi di lavoro (non solo industriali ma terziari).
La combinazione di questi diversi canali di distribuzione/raccolta dei questionari ha prodotto un risultato imponente: 22.054 questionari compilati (circa 3200 sono arrivati via Internet), di cui 19.025 compilati da lavoratori occupati (il questionario era centrato sul lavoro, ma conteneva una parte di domande più generali, cui potevano rispondere anche i non occupati - prevalentemente pensionati e in minor misura studenti).
Oltre al dato numerico, vale la pensa di sottolineare due aspetti 'qualitativi' del 'campione' che è emerso dalla combinazione di questi canali. Esso corrisponde (essenzialmente, anche se non esclusivamente) a quel 'popolo di sinistra', in gran parte di area DS, che frequenta le feste dell'"Unità", o la legge, o frequenta il sito Internet di quel giornale (più variegata, naturalmente, la composizione dei questionari raccolti sui luoghi di lavoro): esso permette dunque di vedere come questo settore della società italiana vive il lavoro e cosa pensa su una serie di problemi sociali e politici. Ma, al tempo stesso, è un campione abbastanza rappresentativo della realtà complessiva del mondo del lavoro. Accanto a un 33,5% di operai, c'è il 42,4% di impiegati, oltre l'11% di dirigenti/quadri/funzionari, oltre il 6% di imprenditori e liberi professionisti. Se guardiamo al tipo di rapporto di lavoro, i dipendenti a tempo indeterminato sono il 76,6%, ma accanto a questi troviamo l'8,5% di dipendenti precari, il 4,2% di collaboratori coordinati e continuativi, e poi soci-lavoratori di cooperativa, varie forme di lavoro autonomo, ecc. E il grande numero di questionari raccolti fa sì che ognuno di questi sottogruppi sia abbastanza numeroso da permettere un'analisi specifica delle sue riposte.
Insomma, un 'campione' sia politicamente che socialmente significativo.
Il questionario (in tutto 45 domande) può essere suddiviso approssimativamente in 4 parti: a una serie di dati anagrafico/familiari; b. dati sulla condizione/posizione di lavoro; c. valutazioni sul lavoro e sul rapporto col mercato del lavoro; d. una serie di domande di carattere politico-sociale più generale.
2. La tematica di questo articolo Quest'articolo focalizzerà l'attenzione sulle domande del punto c, cioè le valutazioni sul lavoro e il mercato del lavoro, analizzate in riferimento ai dati del punto b, relativi alla posizione e condizione di lavoro.
Tralasciamo dunque le domande più 'politiche' (e quelle più direttamente relative al salario): una rinuncia dolorosa, che però ci permette di focalizzare l'attenzione su alcune questioni nodali del dibattito nel movimento operaio, quelle relative - ad esempio - alla qualità del lavoro e alla flessibilità/precarietà nel mercato del lavoro.
L'inchiesta infatti fornisce ricchi elementi di conoscenza su cosa pensano i diversi tipi di lavoratori riguardo a problemi come la qualità del lavoro (e gli elementi di non-qualità), il rapporto tra formazione e lavoro, il rapporto tra lavoratore e mercato del lavoro e le prospettive che ne derivano.
Le risposte a queste domande proveremo a leggerle in riferimento ad alcune approssimative 'tipologie', relative al lavoro dipendente in senso lato (includendo quindi anche i 'para-subordinati', cioè i co.co.co.).
Dal punto di vista della posizione professionale, ci riferiremo ai seguenti gruppi:
- dirigenti, - quadri e funzionari, - impiegati, - operai.
Dal punto di vista del tipo di rapporto di lavoro, i riferimenti saranno:
- contratti a tempo indeterminato, - contratti a tempo determinato, - lavori interinali, - co.co.co.
Naturalmente, nell'analizzare questi rapporti, prenderemo in considerazione l'influenza di variabili quali l'età e il tipo di titolo di studi. Un discorso a parte riguarda la variabile di genere: nelle domande da noi prese in considerazione, quasi sempre, non emergono differenze rilevanti tra uomini e donne. Ciò non significa che le differenze di genere non emergano nell'insieme dell'inchiesta; ed esse saranno adeguatamente prese in considerazione nel rapporto complessivo sulla ricerca.
3. Qualità del lavoro e dintorni 3.1. Il lavoro piace?
Alla domanda "il tuo lavoro ti piace?" quasi l'80% dà una risposta positiva: il 29,9 risponde "molto" e il 49,2
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"abbastanza", mentre solo il 20,3 risponde "poco" (14%) o "per niente" (6,3%).
Naturalmente, su queste valutazioni influisce la posizione professionale: dirigenti, imprenditori, liberi professionisti registrano non solo oltre il 90% di valutazioni positive, ma - all'interno di queste - oltre il 60% di "mi piace molto"; anche tra i quadri le valutazioni positive raggiungono il 90%, ma i "molto" scendono al 45. Gli operai registrano la punta più bassa di valutazioni positive, ma anche tra loro queste raggiungono il 67,1% (50,8 "abbastanza" e 16,3 "molto").
I lavoratori autonomi sono in genere più soddisfatti dei lavoratori dipendenti: non solo gli autonomi in senso proprio (dove le valutazioni positive superano il 93%), ma gli 'pseudo-autonomi', come i co.co.co. (88%) e i soci-lavoratori di cooperativa (83%). La percentuale di risposte positive scende (non di molto) sotto l'80% per i vari tipi - stabili o precari - di lavoro dipendente (dov'è più forte l'incidenza del lavoro operaio); unica eccezione, i lavoratori interinali, dove le valutazioni positive crollano al 53% (e dove il 45 risponde "poco" o "per niente").
3.2. I fattori di disagio e di limitazione sul lavoro I fattori di disagio e limitazione sul lavoro venivano esplorati attraverso due domande (in parte sovrapponentisi): "quali fattori di disagio incontri nel tuo lavoro?" e "quanto ti senti limitato nel lavoro dai seguenti aspetti?". Diamo qui di seguito un'approssimativa sintesi delle risposte.
a. I due elementi nettamente preponderanti sono lo stress (45,7%) e l'inadeguato riconoscimento economico del proprio lavoro (45,2% - percentuali calcolate sul totale degli intervistati, che potevano dare più di una risposta). Sono le due facce del lavoro di oggi: un lavoro stressante, e inadeguatamente retribuito. Ma non hanno un andamento parallelo: l'indicazione dello stress cresce nei lavori più professionali e meglio retribuiti, e viceversa.
b. Subito dopo questi aspetti più generali, hanno molto rilievo le condizioni organizzative in cui si svolge il lavoro: l'organizzazione del lavoro (38,4%), il non poter influenzare le politiche manageriali (25,7%), la burocrazia interna (25,3%), la gerarchia (21,3%). Queste modalità sono indicate con particolare intensità dalle posizioni elevate del lavoro dipendente (dirigenti, quadri), ma sono frequenti - soprattutto negli aspetti più direttamente legati alla prestazione lavorativa - anche tra operai e impiegati: l'impossibilità di intervenire sull'organizzazione del lavoro è indicata da oltre il 42% degli intervistati di ambedue queste categorie professionali.
c. Un rilievo un po' minore hanno i problemi riguardanti più immediatamente la condizione materiale di lavoro: ripetitività (21%), ritmi di lavoro (20,2%), gestione dei tempi e delle flessibilità sul lavoro (20,1%), turni/orari di lavoro (13,4%), fatica fisica (11,4%), rischi per la salute (10,8%). Come prevedibile, queste indicazioni toccano quasi sempre la punta massima tra gli operai; ma - come s'è visto - non sono per questi gli unici fattori di disagio, e inoltre vengono indicati in varia misura anche da qualifiche non-operaie: anzi, i ritmi di lavoro sono indicati da figure come dirigenti e quadri in misura superiore agli operai - segno di una 'pressione temporale' che, sia pure in forme diverse, investe pesantemente queste figure.
d. Vi sono poi aspetti che riguardano la contraddizione tra lavoro ed esigenze di vita: la "difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di vita" riceve il 37,1% di indicazione, e ha un andamento analogo a quello dello stress, risultando più indicata dalle figure professionali più elevate - segno che, in quelle più basse, si incontrano 'prima' problemi ben più pressanti ed 'elementari'. "La difficoltà nei rapporti umani sul lavoro" è segnalata dal 15,8% degli intervistati.
e. Infine, l'insicurezza del posto di lavoro non sembrerebbe avere un peso particolarmente rilevante tra i fattori di disagio: essa è indicata dal 13,1% degli intervistati. Non dimentichiamo però che oltre i 3/4 di questi hanno un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (cioè formalmente 'garantito'); non a caso, questo aspetto viene al primo posto tra i co.co.co (52,7%), i lavoratori interinali (48,7%), i dipendenti a tempo determinato (46,2%).
Un andamento per certi versi analogo ha la scarsa tutela contrattuale. Essa è indicata complessivamente dal 15,7% degli intervistati, ma tocca punte del 60,8 tra gli interinali, del 59 nei co.co.co., del 44,2 nei dipendenti a tempo determinato e del 31 circa tra contratti di formazione-lavoro e apprendisti.
3.3. Prospettive professionali e formazionea. Alla domanda "pensi di avere buone prospettive professionali?" il 35,2% risponde "no", il 21,8 "sì" e il 22,2 "sì, ma dipendono dalle scelte dei capi". Vi è poi un 10,8% di "sì, ma non dove lavoro adesso" e un 7% di "no, ma tanto è un lavoro che voglio cambiare". La percentuale di "no" è particolarmente elevata tra
gli operai (46,4%) ma anche tra gli impiegati è superiore alla media. I "sì" netti sono particolarmente numerosi tra imprenditori, dirigenti, liberi professionisti; i "sì, ma..." sono particolarmente frequenti tra impiegati e quadri.
Le fasce di età più giovani (meno di 35 anni di età) sono relativamente più fiduciose nelle loro prospettive professionali, malgrado la maggior incidenza - al loro interno - di rapporti di lavoro precari.b. Sull'utilizzo della formazione scolastica nel proprio lavoro, il 24,7% risponde che è "molto utile", il 32,9 che lo è "solo in parte", il 19,3 che "il lavoro non lo richiede", il 12,5 che essa "riguarda altri lavori", il 9,7 che è "troppo bassa". Al di là dei due casi 'estremi' e più netti, abbiamo dunque quasi due terzi di forme di mismatching (cattiva relazione) tra formazione ricevuta e lavoro svolto. L'utilizzo pieno della formazione scolastica è segnalato maggiormente dalle scolarità alte (livello universitario) e dalle posizioni professionali elevate.
Per quanto riguarda le esigenze di ulteriore formazione e la misura in cui l'azienda viene loro incontro, possiamo notare che quasi l'80% degli intervistati esprime ulteriori esigenze di formazione. Queste esigenze sono particolarmente sentite dai più scolarizzati, dai più giovani (ma sono diffuse anche nelle altre fasce d'età) e dalle figure più qualificate del lavoro dipendente.
Ma solo il 23,1% dice che l'azienda risponde a queste esigenze; il 38,2 dice che l'azienda non risponde, e che quindi deve arrangiarsi da solo; infine, il 16,9 sente esigenze di formazione slegate dal lavoro attuale, e il 17,7 non sente esigenze di ulteriore formazione. La possibilità che l'azienda risponda alle esigenze di formazione sembra nettamente correlata col livello gerarchico, scendendo progressivamente dai dirigenti fino agli operai. Dipendenti precari, contratti di formazione lavoro e apprendisti segnalano in misura un po' maggiore una rispondenza dell'azienda ai bisogni formativi, mentre l'opposto avviene per gli interinali.
4. Il lavoro nel mercato del lavoro 4.1. quanti lavori prima del lavoro attuale?
Tra gli intervistati, solo l'1,7% è al suo primo lavoro, il 30,8 ne ha svolto uno prima di quello attuale, il 25,5 ne ha svolti due, il 25,3 da tre a cinque, il 9,1 più di cinque.
Il dato interessante è che il numero di lavori precedentemente svolti non presenta una correlazione significativa con l'età: ora, se pensiamo che i giovani hanno alle spalle un periodo lavorativo più breve - tanto più che col crescere della scolarità si ritarda l'ingresso nel lavoro - questi dati sembrano indicare una più intensa mobilità tra lavori nelle fasce più giovani.
4.2. La percezione della sicurezza a. Le risposte alla domanda "ritieni che il tuo posto di lavoro sia sicuro?" confermano quanto già accennato prima, e cioè che la percezione di sicurezza è tuttora diffusa: il 25,6% lo considera "sicuro", il 50,5 "abbastanza sicuro", solo il 16,5 lo considera "poco sicuro" e il 10,5 "per niente sicuro". Ma emergono anche le differenze già notate prima: tra i rapporti a tempo indeterminato l'83,4 considera il posto "sicuro" o "abbastanza sicuro", ma la percentuale crolla al 39 tra i dipendenti a tempo determinato, al 37,3 tra i co.co.co. e al 20,9 tra gli interinali.
b. Per quali ragioni il posto di lavoro non è sicuro? (La domanda veniva rivolta solo a quel 27% che aveva indicato un qualche grado di insicurezza del posto.) Il 38,8% risponde "oggi nessun posto di lavoro è sicuro" (un primo indizio di come viene percepita la 'fase della flessibilità': è anche significativo che questa risposta sia particolarmente diffusa nelle grandi aziende). Segue, col 24,6%, "ho un contratto di lavoro precario" (indicata naturalmente dai precari), poi "lavoro in un'azienda in difficoltà" col 19,7% (risposta particolarmente diffusa tra i dipendenti di grandi aziende); infine "lavoro in un'azienda piccola" col 9,3% (una percentuale nettamente inferiore a quella dei dipendenti di piccole aziende, che - limitandoci a quelle con meno di 50 addetti - sono il 27% circa, mentre chi ha indicato questa risposta non supera il 3% sul totale degli intervistati).
c. Una domanda più diretta e 'concreta' chiedeva: "se tu perdessi il lavoro, in quanto tempo pensi che riusciresti a trovarne un altro simile, o comunque accettabile?". Anche in questo caso, le risposte rivelano una valutazione relativamente ottimistica: oltre il 53% pensa di riuscire a trovarlo "nel giro di poche settimane" (19,4%) o "di qualche mese" (34%); l'11% parla di "un anno o forse più" (e tra questi sono numerose le figure professionali elevate, tra le quali crescono le esigenze e quindi i tempi di ricerca). Però, all'opposto, abbiamo ben il 33,2% che risponde "non so se lo troverei".
4.3. La valutazione della flessibilità Se alcune di queste risposte sembrano indicare un 'adattamento positivo alla flessibilità', e una valutazione relativamente ottimistica delle condizioni che essa
viene a creare, le risposte alla domanda che chiedeva una valutazione complessiva sulla flessibilità mostrano una prevalente percezione critica del fenomeno. La domanda era: "oggi il rapporto di lavoro tende ad essere più flessibile e meno garantito: cosa ne pensi?". Solo il 4,7% risponde "mi fa sentire più libero nei miei progetti"; oltre il 71% dà risposte negative di vario tipo ("mi fa sentire più insicuro, rende più difficile fare progetti": 36,2%; "comporta più rischi che possibilità": 21,1%; "mi preoccupa per le ricadute sulla pensione": 14%). Infine, un 26,3% esprime un "sì" derivante da una condizione che attualmente non c'è: "potrebbe andar bene se ci fossero adeguate protezioni".Vale la pena di notare che la risposta "mi fa sentire più libero" registra percentuali superiori alla media (anche se sempre nettamente minoritarie) tra imprenditori, liberi professionisti, dirigenti. I "sì, se ci fossero adeguate protezioni" registrano percentuali più alte tra scolarità e professionalità più elevate. Le valutazioni complessivamente negative toccano le punte massime tra gli operai e tra i rapporti di lavoro precari.
Resta comunque la percezione diffusa e prevalente che la flessibilità non costituisce uno stimolo o un contesto favorevole, ma un ostacolo allo sviluppo di una progettualità sul proprio lavoro.
4.4 Aspettative/progetti per il futuro Veniamo appunto ai progetti, cui si riferisce la domanda "quali progetti lavorativi hai per il futuro?".
I progetti espliciti di stabilità sono il 56,4%: nella forma 'attiva' ("rimanere dove lavoro migliorando la mia posizione": 37,3%) o in quella 'rassegnata' ("tirare avanti in questo lavoro fino alla pensione": 19,1%). I progetti espliciti di mobilità sono solo il 18,5% ("cercare lavoro altrove a condizioni migliori: 33,3%; "mettermi in proprio con un lavoro autonomo: 5,2%). V'è poi una progettualità in qualche modo 'indifferente' al lavoro ("i progetti a cui tengo non riguardano il lavoro ma altro": 14,5%) e infine una sensazione di impotenza ("non mi posso permettere progetti per il futuro": 6,4%).
Vediamo dunque un prevalente desiderio di stabilità. Esso cresce con l'età; tra i più giovani, i progetti di mobilità sono consistenti (43% nella fascia 18/24 anni e 32,1 nella fascia 25/34). Anche i titoli di studio più elevati sembrano relativamente più propensi alla mobilità: tra i titoli universitari, le ipotesi di mobilità toccano il 25% (ma, anche in quest'ultimo caso, la ricerca di stabilità resta prevalente).
Le aspettative/progetti di stabilità sono più forti tra i dipendenti che tra gli autonomi, ma si riducono un po' col diminuire della qualifica. Infine, ovviamente, sono più forti tra i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che tra quelli precari; ma solo tra gli interinali e gli apprendisti i progetti di mobilità prevalgono su quelli di stabilità.
5. Qualche spunto di riflessione In queste osservazioni conclusive mi riferirò ai risultati della ricerca abbastanza liberamente, intrecciandoli con riferimenti agli schemi analitici correnti nel recente passato, con elementi di esperienza, con posizioni diffuse nel movimento operaio.
Il panorama che emerge dall'inchiesta è, almeno a prima vista, contraddittorio, perché accanto ad elementi di 'introiezione' della flessibilità come quadro inevitabile, e di accettazione/adattamento alle caratteristiche del lavoro, emergono elementi critici sull'uno e sull'altro versante. Tutto ciò mette in discussione sia ipotesi analitiche che 'stereotipi politici' a lungo diffusi e accettati. (Va tenuto presente che l'inchiesta è stata effettuata prima che le leggi-delega sul mercato fossero approvate, e tanto più, prima che queste abbiamo potuto produrre effetti concreti - e potenzialmente devastanti: ciò che esse produrranno è ancora in larga misura da vedere.) 5.1. Qualche 'impressione tipologica' Nell'analizzare i risultati della ricerca, mi sono riferito abbastanza costantemente a tipologie di figure professionali e di rapporti di lavoro. Non è il caso qui di elaborarle sistematicamente: mi accontenterò di alcuni 'flashes' o impressioni, che - in particolare - mettano in luce aspetti nuovi o in parte inattesi, o comunque di particolare rilevanza politica.
Partiamo dalle figure professionali. È rilevante che tra quadri e impiegati (ma anche tra i dirigenti...) compaiano con grande forza modalità di disagio che si riferiscono alla loro alienazione dal potere decisionale, e che le risposte degli impiegati si avvicinino su vari aspetti a quelle degli operai. Le risposte degli operai sembrano indicare un intreccio tra i fattori di disagio tipici di una persistente 'area taylorista' e fattori di disagio relativamente nuovi; la rilevanza dell''impossibilità di controllare l'organizzazione del lavoro' è un elemento comune a queste due diverse situazioni, e che accomuna gli operai agli impiegati.
Venendo ai tipi di rapporto di lavoro, i tempi indeterminati sono segnati da una contraddizione: da un
lato, si percepiscono come relativamente garantiti, dall'altro tra loro è particolarmente consistente la porzione che, in caso di perdita dell'attuale lavoro, si ritiene priva di alternative o quasi.
Gli atipici/precari presentano un panorama variegato: si va dai contratti di formazione-lavoro - i quali in larga misura si sentono 'tempi indeterminati in potenza' - agli interinali, tra i quali è più acuto di tutti il senso della precarietà ma anche di un lavoro insoddisfacente (si capisce quanto valgano le 'definizioni originarie' dell'ambito di applicazione del lavoro interinale!).Un discorso a parte richiedono i co.co.co.: tra i quali è acutissimo il senso della precarietà e della scarsa tutela contrattuale, ma è anche diffusa una valutazione positiva della qualità del proprio lavoro, insieme a un relativo ottimismo sulle proprie prospettive professionali. Questo atteggiamento si collega a un più generale atteggiamento dei giovani, in cui la fiducia nel valore del titolo di studio e l'interesse per il lavoro inducono atteggiamenti spesso ottimistici sulle proprie prospettive, ai quali corrispondono però pesanti preoccupazioni sulle possibilità di ulteriore formazione e sulle conseguenze della flessibilità.
5.2. A proposito di qualità/quantificazione del lavoro Le risposte alla domanda "il tuo lavoro ti piace?" forniscono un'ulteriore smentita, generica ma convincente, alle tesi bravermaniane (ma non solo) sulla tendenza ineluttabile a una dequalificazione/degradazione del lavoro. Ma, anche qui, il panorama è contraddittorio. Non solo permangono vaste aree che presentano le caratteristiche e i disagi tipici del lavoro tayloristico (tra gli operai ma anche tra gli impiegati), ma nelle aree più qualificate, vecchie e nuove, sono acutissimi il disagio per la pressione temporale, che si traduce in stress, la contraddizione tra esigenze e opportunità di formazione (e quindi di carriera), il senso di alienazione dalle decisioni collegate al proprio lavoro: quanto più il lavoro piace, tanto più sono sentiti questi aspetti. Su tutti, poi, incombe 'l'incognita del mercato del lavoro', anche quando essa parrebbe soggettivamente sottovalutata - come vedremo ora.
5.3. Le nuove segmentazioni del mercato del lavoro flessibile Le formulazioni classiche del dualismo del mercato del lavoro vengono scombinate dal nuovo quadro di flessibilità. Il livello formativo/di qualificazione non costituisce più una discriminante certa tra garantiti e non-garantiti: abbiamo giovani molto scolarizzati e qualificati che sono precari e sottopagati, ma anche il qualificato anziano è a rischio, quando diventa 'obsoleto'. Non è neanche una discriminante certa il tipo di rapporto di lavoro: abbiamo tempi indeterminati anziani (dequalificati ma anche qualificati - come s'è accennato poc'anzi) che si avvieranno a una radiosa carriera. (Anche per queste ragioni, è oggi impossibile identificare una fascia di età forte, come avveniva in passato per la fascia 'intermedia' tra i 25 e i 45.) Il fatto è che i percorsi di lavoro - sul mercato interno ed esterno - sembrano sempre più legati al 'caso' (l'aver imbroccato il progetto o la commessa 'giusta', o l'ufficio/reparto 'forte' - che non verrà terziarizzato - nell'azienda, o 'l'azienda giusta' - che non soccomberà - nel mercato) e in parte al tessuto di relazioni (la relazione col capo che apre i 'canali giusti' di carriera, o le relazioni che permettono di entrare nell'azienda di successo). Ma questa casualità e relativa caoticità di percorsi impedisce un processo di 'accumulazione progettata' di esperienza e la costruzione di un progetto solido di crescita professionale. Di qui la 'difficoltà di fare progetti' segnalata da una gran parte degli intervistati. Tutto questo si ricollega ai nodi non risolti - già segnalati prima - del rapporto tra esigenze e opportunità di formazione.
5.4. Qualche notazione più 'politica' Insieme ad alcuni schemi analitici tradizionali, vengono investiti dai risultati della ricerca alcuni stereotipi politici diffusi, ' a sinistra' e 'a destra', nel movimento operaio di oggi: quello 'lamentoso', secondo cui il lavoro peggiora nella sua qualità e tutti i lavoratori sono disperati e impotenti di fronte al mercato del lavoro flessibile, e quello 'apologetico' secondo cui, almeno i giovani, non desiderano altro che la flessibilità, foriera di nuove opportunità e possibilità di scelta.
A fronte di questi stereotipi, dobbiamo riproporci una domanda di fondo: come cambiano le possibilità di controllo del lavoratore sul suo lavoro e sul mercato del lavoro - in una parola, sul suo destino lavorativo - nella transizione dalla fase fordista a quella attuale? La risposta non è semplice. A prima vista potrebbe sembrare, da alcuni dati della nostra come di altre ricerche, che migliori il controllo sul lavoro e peggiori quello sul mercato del lavoro. Ma è possibile che il drammatico peggioramento di questo secondo aspetto offuschi e metta in secondo piano i problemi del
primo - un nuovo e più sottile effetto di 'esercito industriale di riserva', di un esercito di riserva del quale è impossibile sapere con certezza se e quando uno ne sta fuori o vi è dentro.
Anche il rapporto tra livello direttamente sindacale e livello politico più generale dello scontro di classe è posto in termini nuovi e più complicati. Nella fase fordista (magari in visioni un po' schematiche e idealizzate di essa), lo Stato (specie se c'era un 'governo amico') garantiva il Welfare, e in qualche misura l'occupazione; il sindacato poteva occuparsi di salario, condizioni di lavoro, ecc. Oggi, l'impianto del Welfare State è messo in discussione e attaccato e, d'altro lato, le stesse possibilità di tutela contrattuale di un numero crescente di lavori dipendono dall'introduzione di misure legislative, 'politiche'.
Ma chi lavora su questo, parzialmente nuovo, assetto delle contraddizioni? In che misura questa problematica - cioè la problematica del lavoro (o, marxianamente, del lavoro alienato) è al centro della dialettica tra unità e divisione oggi in atto nella sinistra e dell'elaborazione dei suoi programmi futuri?
* Una sintesi dei primi risultati dell'inchiesta è apparsa in un paginone dell'"Unità" il 27 febbraio 2003. Prima della fine dell'anno dovrebbe uscire in volume (allegato a "l'Unità") il rapporto completo sulla ricerca. Il gruppo di ricerca - oltre che da Aris Accornero e dal sottoscritto - era composto da Mimmo Carrieri, Giuseppe Fiorani, Mario Giaccone, Igor Piotto, Serena Saltarelli. Per i DS ha seguito tutto il lavoro di ricerca il responsabile lavoro di quel partito, Cesare Damiano.