E se facessimo pagare i ricchi?
 











Caro Cameron, fammi pagare più tasse». L’ultimo appello, in ordine di tempo, è venuto dallo scrittore inglese Mark Haddon. Autore-cult e di gran successo, con i suoi due milioni di copie vendute è entrato da qualche anno nella schiera degli abbienti. E da lì attacca il suo governo: «Le vostre misure di austerità hanno fatto soffrire molta gente, ma non hanno neanche sfiorato i benestanti come me». Come aveva fatto il miliardario Warren Buffet negli Stati Uniti, Haddon mette il dito nella piaga: in tempi di recessione e austerity, dice, dobbiamo pagare anche noi, quelli che stanno al top. I membri del club dell’1 per cento: dove quell’uno indica il gradino più alto e potente della scala della fortuna economica, e chi protesta lo fa a nome del restante 99 per cento. Finora se la sono cavata, ovunque. Ma adesso, al quinto anno di crisi economica e con la stretta sempre più forte dei bilanci pubblici, la questione delle tasse sui più benestanti sta balzando in primo piano quasi ovunque. In Francia, dove sulle tasse ai ricchi Hollande ha conquistato l’Eliseo, come negli Stati Uniti, dove Obama si gioca la rielezione sull’annullamento dei regali di Bush ai milionari. Nella Londra che stende tappeti rossi ai possidenti francesi in fuga dal fisco, come in Italia, dove si riaffaccia il dibattito sulla patrimoniale. Ma il segnale del fatto che la misura è colma, per il club esclusivo dell’1 per cento, viene anche dall’interno. Dalle assemblee delle società, con gli azionisti che votano contro l’aumento delle paghe ai supermanager.
I numeri Uno
Maurice Levy, uno dei più potenti boss della pubblicità mondiale, faceva parte della schiera dei super-ricchi disposti a pagare un po’ di tasse in più per contribuire al bilancio pubblico francese. Come Buffet, aveva fatto pubbliche dichiarazioni in tal senso - salvo poi dissociarsi dai programmi di Hollande, e dalla sua idea di imporre un’aliquota marginale al 75 per cento per i redditi
sopra il milione di euro: non intendevo così tanto, ha detto. Quel che però non si aspettava era che i suoi 16,2 milioni di guadagni per il 2012 fossero messi in discussione, ancor prima che dal governo socialista, dagli azionisti della Publicis, che nell’assemblea annuale hanno contestato la paga di Levy. La stessa scena si è ripetuta in parecchie assemblee societarie in giro per il mondo: per lo più nel settore finanziario, in banche come Citigroup, Ubs e Barclays, ma anche nel campo dei media fino alle multinazionali della farmaceutica. Un movimento che è arrivato un po’ dappertutto, salvo che nelle piazze come la nostra, dove l’azionariato è più ristretto e salottiero, e fondi di investimento e piccoli azionisti contano meno. L’hanno chiamata "la primavera degli azionisti". Sarà forse esagerato paragonare un’assemblea di bilancio ai tumulti delle primavere arabe.
Sta di fatto che, laddove contano qualcosa, gli azionisti hanno messo in discussione il loro gotha, i protagonisti
della grande cavalcata di redditi e ricchezze degli ultimi tempi: i cosiddetti "working rich", i top manager delle grandi società le cui fortune, più che sulle proprietà di famiglia, sono basate proprio sui compensi astronomici riconosciuti al loro lavoro. Al fianco delle superstar del calcio alla Ibrahimovic, e ai tradizionali grandi capitalisti, sono loro il "popolo" dell’1 per cento. Quello che, dagli anni ’80 a oggi, si è preso una fetta crescente della ricchezza delle nazioni. Negli Stati Uniti, patria del fenomeno, attualmente quell’1 per cento si becca quasi il 23 per cento del reddito complessivo. Le sproporzioni sono un po’ più miti in Europa, ma la tendenza è simile.
Per vederla, basta un clic. C’è un sito, chiamato "The top world incomes database", messo su da alcuni tra i più quotati economisti al mondo che studiano questi temi - Facundo Alvaredo, Tony Atkinson, Thomas Piketty e Emmanuel Saez - dove chi vuole può vedere come vanno le cose ai ricchi del suo paese, e fare
confronti con gli altri. Per l’Italia, viene fuori che dagli anni ’80 la quota dell’1 per cento più ricco è salita man mano fino a sfiorare il 10: ciascuno dei signori piazzato sullo scalino più alto guadagna dieci volte di più di tutti quelli che sono sugli altri 99 scalini, bambini esclusi. La forbice si è allargata, all’inizio degli anni ’80 il rapporto era di sette a uno. E si tratta di dati sottostimati: infatti non comprendono i redditi da capitale, che per la gran parte non entrano nelle dichiarazioni e dunque nei numeri del database che, per lo stesso motivo, non vede il sommerso e i redditi evasi o nascosti.
La tendenza, dunque, è chiara: la nuova diseguaglianza è trainata dallo sprint dei redditi più alti. Ancora più forte è la concentrazione della ricchezza, accumulata e tramandata esentasse. Su questa, i dati di Bankitalia parlano chiaro: il 10 per cento possiede il 44 per cento della ricchezza nazionale. Sui patrimoni maggiori la statistica, però, può poco: meglio
ricorrere alle classifiche di "Forbes", oppure alle stime dei cacciatori di patrimoni. Secondo CapGemini, gli Hnwi - High Net Worth Individuals, persone con patrimonio superiore al milione di dollari, prima casa esclusa - sono in Italia quasi 170 mila. Gli analisti di Credit Suisse ne stimano invece molti di più, "contando" 1,4 milioni di italiani con ricchezza netta superiore al milione di dollari: ma in questo dato è compresa anche la prima casa (al netto dei mutui). Interessante anche la stima di Credit Suisse sui super-Paperoni mondiali, quelli che hanno un patrimonio superiore ai 50 milioni di dollari: l’Italia ha un piazzamento di tutto rispetto, al nono posto.
Graziati dal fisco
Ma torniamo ai redditi, così come misurati nella classifica dei "Top incomes". Andando sui piani altissimi: lo 0,1 per cento più ricco ha visto più che raddoppiare la quota di reddito dall’80 a oggi, e il rapporto con il reddito medio di quelli che stanno sotto è adesso di 27 a 1. Sono 40-50 mila
persone, tra le quali Silvio Berlusconi. Gente che ha beneficiato, tra le altre cose, del taglio dell’aliquota Irpef più alta, al 43 per cento. I conti li ha fatti l’economista Ruggero Paladini, e li ha presentati in un convegno dell’Associazione Manlio Rossi Doria: "Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?". Mentre i redditi medio-alti, ha spiegato Paladini, hanno più o meno mantenuto lo stesso livello di tassazione, poiché la riduzione delle aliquote Irpef varata da Tremonti è stata compensata da variazioni delle detrazioni, i redditi sopra i 175 mila euro sono stati i veri beneficiati. Una versione all’italiana della riforma Bush, su cui gira in questi giorni uno specchietto destinato a condizionare la campagna per le presidenziali Usa: gli sgravi fiscali decisi a suo tempo da George W. e difesi dal partito repubblicano valgono più di 70 mila dollari l’anno per l’1 per cento più ricco degli americani: scenderebbero a poco più di 20 mila dollari nella proposta Obama. Dal lato opposto della piramide, il taglio fiscale al 20 per cento più povero è di appena 120 dollari l’anno nella versione repubblicana, salirebbe a 270 nel programma democratico.
Allora: dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Al convegno la domanda era retorica, e sono stati snocciolati i motivi etici, culturali, filosofici ed economici del "sì". Certo è che nel dibattito tra gli economisti la questione è al centro dell’attenzione, e da più parti si propone di tornare a far crescere le aliquote delle imposte sui redditi più alti. Fioccano studi nei quali si danno numeri da brivido (per alcuni, almeno): il premio Nobel del 2010 Peter Diamond, insieme a Emmanuel Saez, propone un’aliquota marginale al 72 per cento. Mentre secondo Thomas Piketty, giovane guru francese della diseguaglianza, si può arrivare anche all’80 per cento, per contrastare «il ritorno dell’epoca della Belle Epoque, alla società dei rentier: da allora le fortune dei ricchi francesi non erano mai state così floride», sostiene Piketty. In
particolare, Piketty denuncia un sistema in cui i redditi tassati sono prevalentemente quelli da lavoro, e quelli da capitale sfuggono alle imposte progressive: parla della Francia, ma vale anche per l’Italia, come scrivono Massimo Bordignon ed Enrico Minelli nell’introduzione all’edizione italiana del libro "Per una rivoluzione fiscale" (ed. La Scuola).
Voglia di patrimoniale?
Tutti discorsi dai quali molti governi, alla ricerca di entrate per far quadrare i conti, sono tentati. Ma che, come la primavera degli azionisti, si scontrano con le resistenze dei citati membri del club dell’1 per cento e soprattutto con la libertà di spostare denaro liberamente nel mondo. «Portare tutti i redditi da capitale (cioè da azioni, obbligazioni, titoli di Stato, interessi) dentro l’Irpef sarebbe certamente la via più giusta», dice l’economista Alessandro Santoro. Però, avverte, «non lo può fare un singolo Paese da solo», altrimenti si crea disparità tra chi ha quei rendimenti in Italia e chi
invece li prende dall’estero: il che certo non è consigliabile, con gli spread che corrono. Senza contare le difficoltà di aumentare adesso, con la crisi in corso, la tassazione sui titoli pubblici. Ostacoli forti, insomma. «Meglio allora, per far pagare di più redditi e ricchezza al top della distribuzione, usare una serie di strumenti», dice Santoro. Rafforzare la manovra Monti, che ha portato al 20 per cento la tassazione secca, alla fonte, sulle rendite finanziarie e ha aumentato alcuni bolli sugli scambi finanziari; ma soprattutto introdurre un’imposta patrimoniale vera, che comprenda tutto: seconde e terze case, opere d’arte, gioielli, quote di aziende di famiglia e tutte le forme di ricchezza finanziaria.
Secondo Santoro, limitando una patrimoniale del genere alle fortune sopra il milione di euro (prima casa esclusa) si avrebbe un gettito attorno ai 3-4 miliardi l’anno. Qualcos’altro si potrebbe aggiungere con un’imposta limitata alle grandissime fortune, sul modello
francese. Si è sbilanciata di più la Cgil, che propone una patrimoniale da 15 miliardi. Il Pd, che parla di patrimoniale mite con aliquota progressiva dallo 0,5 all’1 per cento e dagli 1,2 milioni in su (escludendo sempre la prima casa).
Ipotesi rifiutate dal governo di Mario Monti, che ha escluso finora la possibilità di introdurre la patrimoniale in Italia. Eppure dall’inizio della crisi erano stati molti ad esprimersi a favore di una tassa sulla ricchezza: da Confindustria alla Cgil, da Alessandro Profumo a Sergio Marchionne, da Giuliano Amato a Gianni Letta, da Vasco Rossi a Luca di Montezemolo e Carlo De Benedetti. Ma per ora non se ne parla, anche per non turbare mercati impazziti e maggioranze traballanti. Fino a nuovi equilibri, finanziari o politici, l’1 per cento dei Paperoni made in Italy può dormire sonni tranquilli.Roberta Carlini-l’espresso