Sistema proporzionale: un argine alla deriva della demagogia
 











In Italia l’esigenza di un modello elettorale di tipo proporzionale si manifestò sin dalla fine del secondo conflitto mondiale e trovò la sua realizzazione nella legge per l’elezione dell’Assemblea costituente. Il D.L. Lgt. 74/1946 rispondeva alle particolari caratteristiche politico-partitiche del momento, alla necessità, cioè, di rappresentare a livello istituzionale una società molto composita ed articolata e alla opportunità di garantire a tutti i movimenti politici un ruolo effettivo nella definizione della nuova Carta costituzionale.
Fin dai suoi albori nel 1861, la storia unitaria italiana è stata, infatti, sempre caratterizzata da accese, se non proprio aspre, antinomie tra fazioni consistenti della nostra società: clericali/anticlericali, monarchici/repubblicani, capitalisti/proletari, interventisti/pacifisti, fascisti/antifascisti. Significativi esempi, accresciuti, nel corso dei decenni successivi, da ulteriori posizioni dialettiche
quali quelle comunisti/anticomunisti, settentrionali/meridionali, liberisti/keynesiani, centralisti/federalisti.
Una molteplicità di non superate contrapposizioni che resero – e rendono tuttora – il sistema proporzionale il più adatto a rappresentare una realtà sociale tendenzialmente incline alla lacerazione. Le consultazioni politiche generali dal 1948 al 1992 si svolsero con il sistema elettorale proporzionale, pur con le previste differenze fra Camera e Senato.
Il 18 aprile 1993, sull’onda di una campagna incentrata sulla presunta rivincita della stabilità sulla rappresentatività e sulle sue mendaci proprietà taumaturgiche antipartitocratiche, il popolo italiano, manipolato dai mass-media di regime, si espresse per il “referendariamente corretto” sistema maggioritario. Il Parlamento varò, conseguentemente, una nuova legislazione elettorale valida non solo per il Senato (oggetto della consultazione referendaria), ma anche per la Camera dei deputati (leggi nn. 276 e
277/1993).
Ci sia consentito, a questo proposito, aprire una breve parentesi e porre due premesse. 1) L’art. 58, primo comma, della Costituzione fissa a 25 anni il limite minimo di età per esercitare il diritto di voto per eleggere i rappresentanti in Senato; 2) il quesito dell’aprile ’93 chiedeva l’abrogazione di quella parte della legislazione allora vigente per l’elezione del Senato che consentiva, a livello regionale, che un seggio potesse essere conquistato solo dal candidato che avesse ottenuto nel collegio almeno il 65% dei voti. Non capiamo perché, allora, a quella consultazione referendaria fossero stati ammessi a partecipare anche cittadini di età compresa fra 18 e 25 anni, cioè privati espressamente dalla Carta costituzionale del relativo diritto di voto politico, ma ai quali fu permesso di esprimersi su modifiche manifestamente non di loro competenza. Una domanda alla quale un semplice e formale richiamo tecnico-costituzionale all’art. 75, terzo comma, della Costituzione
(“Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati”) ci sembrerebbe insufficiente, superficiale ed elusivo della eccezione sostanziale sollevata.
Le elezioni legislative del 1994, 1996 e 2001 si svolsero con un sistema misto, con tre quarti dei seggi assegnati col metodo maggioritario in collegi uninominali e un quarto con metodo proporzionale con riparto su scala nazionale. Quella riforma non evitò, comunque, il fallimento sia della lotta alla frammentazione della rappresentanza (le formazioni presenti in Parlamento passarono dalle tradizionali dieci-dodici a circa cinquanta), sia del perseguimento della stabilità dei governi (si pensi ai ribaltoni anti-Berlusconi del ’94, anti-Prodi del ’98 e alla staffetta D’Alema-Amato del 2000).
È innegabile che questo sistema non solo ha stravolto – snaturandone essenza, specificità ed identità – i soggetti politici ad esso asserviti, ma la lotta nell’arena politica, da allora, risulta
egemonizzata da speculari tentativi di conquista del consenso di quella massa amorfa, rappresentata dalla palude centrista, da parte dei due falsamente opposti schieramenti. Tale scenario ha determinato una conseguenza diretta e devastante: l’adozione di politiche “di sinistra” da parte della coalizione di centro-destra (la vicenda del voto agli immigrati è emblematica) e la rincorsa a scelte “di destra” da parte dei partiti di centro-sinistra (si pensi, ad esempio, ai grandi processi di privatizzazione della seconda metà degli anni ’90 o al servizio militare professionale istituito dalla legge 331/2000). Ecco i paradossi prima politici e poi sociali che il superamento del sistema proporzionale ha fatto assurgere a norma.
La polarizzazione della rappresentanza politica, iniziata sotto la spinta di tangentopoli e dell’esito della consultazione referendaria del 1993, subì una forte accelerazione in occasione della imminenza delle elezioni del 13-14 aprile 2008. Le aggregazioni dei
“Fab Four” (Democratici di sinistra, Margherita, Forza Italia ed Alleanza nazionale) in due più grossi contenitori (Pd e Pdl) ebbero l’effetto di semplificare (di fatto oligopolizzare) l’offerta rappresentativa in entrambi i versanti della geografia politica italiana.
Per la verità, ognuno dei quattro soggetti partitici era già frutto di precedenti semplificazioni, scomposizioni e aggregazioni suggerite e favorite dalle logiche maggioritarie scaturite dalla citata riforma elettorale del ’93. Logiche che – è bene sottolinearlo – non sono venute meno neanche con il nuovo sistema di voto utilizzato per la prima volta nel 2006 (e confermato nel 2008), il cosiddetto “porcellum”, tornato proporzionale soltanto formalmente. Un metodo che evidenziò vistose e beffarde asimmetrie nella composizione delle due assemblee elettive con la previsione di un premio di maggioranza su base nazionale alla Camera e su base regionale al Senato alla coalizione più votata.
L’accelerazione cui si è fatto
cenno fu, infatti, filiazione diretta dei quesiti referendari promossi nel 2006 e dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale nel mese di gennaio 2008 che prevedevano l’abrogazione sia della possibilità di collegamento tra liste sia dell’attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste (assegnato di fatto, invece, al partito più votato). Quesiti che il 21 giugno 2009 sarebbero stati bocciati dal popolo il quale, con una affluenza di circa il 24%, impedì il raggiungimento del quorum necessario.
Nel frattempo, i “Fab Four”, più realisti del re(ferendum), già nel corso del 2007, ne recepirono il contenuto normativo, conformando al futuro presunto impianto legislativo la composizione strutturale delle alleanze, così passando da un sistema di partiti eterogenei riuniti in una coalizione ad un sistema di alleanze basato su un unico partito-contenitore al suo interno molto eterogeneo.
Lo scenario della campagna elettorale 2008 fu, tuttavia, per molti versi, ancora
più avvilente di quello – seppure giuridicamente analogo – del 2006. Alla scomparsa delle preferenze e del vincolo dei programmi sulla cui base raccogliere il consenso (emblematico il caso delle 280 pagine del programma unionista prive di espliciti riferimenti a Tav e Dico), si aggiunse la scomparsa pressoché completa dei partiti tradizionali, o, meglio, la marginalizzazione da parte dei due mega-blocchi di tutte quelle forze politiche non allineate, non disposte a sciogliersi nell’acido del bipartitismo e ad immolarsi sul mendace altare della governabilità; forze portatrici di tradizioni, culture, specificità, memorie, idee che – poco importa se di centro, di sinistra o di destra – rappresentavano un patrimonio irrinunciabile della nostra Nazione e del nostro Popolo.
I reciproci richiami al cosiddetto voto utile – al di là dei toni da campagna elettorale ufficialmente aspri – tra i massimi esponenti dei due superpartiti dimostrarono che la vera opzione bipolare su cui gli Italiani
– ecco il punto cruciale – sarebbero stati chiamati ad esprimere la loro opinione non era la vetusta e concettualmente fuorviante dicotomia destra/sinistra, bensì una vera (e nuova) contrapposizione tra adesione acritica a burocrazie antidemocratiche di strutture artificiali senza radici, senza simboli e senza ideali, da un lato, e, dall’altro, ancoraggio a modelli partecipativi nei quali ancora sussistevano riferimenti alle persone, alla qualità, alla militanza, alla storia.
Disconoscere questo aspetto, negare che questo fosse il vero oggetto del contendere alle politiche del 2008 e, in ultima analisi, cadere nella trappola del voto utile ai due grossi contenitori rappresentò l’ennesima prova di miopia di un popolo italiano non più abituato ad esercitare individualmente lo spirito critico, incapace di ragionare con la propria testa, preoccupato soltanto che “quelli dell’altro schieramento” fossero più furbi e votassero per il “loro” contenitore.
La polarizzazione bipartitica
targata Pd-Pdl e la penalizzazione dei soggetti “minori” costituì, insomma, il tratto distintivo della mutata offerta politica che contraddistinse quella campagna elettorale.
L’auspicata reazione al duopolio Pd-Pdl sarebbe dovuta passare attraverso il suffragio da accordare a quelle storiche forze di una certa consistenza numerica e radicamento socio-territoriale in grado di poter superare gli sbarramenti previsti da una legge elettorale falsamente proporzionale. Ma ciò non avvenne. Concentrare i voti su quei quattro-cinque partiti o raggruppamenti ben visibili, collocati al di fuori dell’artificiale bipartitismo estraneo alla storia d’Italia avrebbe rappresentato l’unica arma democratica nelle mani del popolo atta a contrastare efficacemente una distorta interpretazione di una competizione elettorale palesemente viziata. Il nuovo quadro competitivo sembrava presentare infatti rilievi di difformità rispetto all’art. 1 e all’art. 48 della Costituzione repubblicana.
L’attrito con
l’art. 1 trovava giustificazione in una cospicua “deminutio” di sovranità popolare arrogata dalle segreterie dei partiti che, a loro insindacabile giudizio, stabiliscono a priori, con discutibili modalità, la composizione anagrafica delle assemblee “elettive”, così sottraendo al popolo una fetta consistente di potere decisionale e sostituendo, in pratica, l’elezione dei parlamentari con una nomina.
Di più difficile evidenza apparve invece l’incompatibilità dell’impianto giuridico-elettorale con l’art. 48 della Carta costituzionale, laddove al secondo comma enuncia che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Ebbene, proprio sulla qualifica di “libero” era ed è lecito esprimere qualche perplessità. L’accentuazione della logica binaria (già vigente dal 1993) perseguita con la polarizzazione verso i due grandi contenitori partitici di centrodestra e di centrosinistra indusse, infatti, consistenti segmenti di elettorato ad orientare la propria
opzione di voto in direzione dei due magneti. E questo per un duplice motivo: per convinzione o in ottemperanza alla asserita logica del voto utile. La paura che gli “altri” prevalessero e lo speculare desiderio di vedere la parte avversa soccombere rappresentarono le uniche giustificazioni causali in grado di conferire un simulacro di significato e contenuto al richiamato concetto di dovere civico.
Ciò che risultò sconfortante fu, tuttavia, il diffuso sentimento di impotenza, rassegnazione ed ineluttabilità che investì quanti non si riconobbero idealmente, culturalmente ed anche politicamente nelle logiche e nelle prassi di potere dei due maggiori contendenti e furono indotti a cedere alle comode lusinghe di una irresponsabile astensione. Le volontà (o presunte tali) dei titolari ufficiali della sovranità oscillarono pericolosamente, quindi, tra voto utile ed astensionismo. Tertium non datur. Forte, allora, fu il sospetto che nell’esercizio del diritto di voto potesse annidarsi un
“vizio di condizionamento”. Un condizionamento, beninteso, non eterodiretto – come paventato dal Costituente – bensì immanente all’essenza stessa della legge elettorale. Si sarebbe rinunciato, insomma, a votare secondo coscienza nel timore di vanificare il proprio suffragio, finendo per beneficiare chi fonda le sue fortune politiche sulla alienazione della facoltà di giudizio del singolo individuo.
Nel 2008, aver scelto il non voto nella misura del 22,49%, tra astensionismo e schede non valide (era stato del 17,26% nel 1992, ultime votazioni politiche col proporzionale), in opposizione ed in alternativa alla logica dei due mega-contenitori, è stata, senza dubbio, l’opzione perdente; non solo ha costituito una evidente espressione di resa e di incapacità di incidere sulla realtà politica, ma, neanche tanto paradossalmente, ha finito per favorire in termini percentuali e di proiezione istituzionale (seggi) proprio chi si intendeva penalizzare.
Le proposte, le negoziazioni ed i
vertici dei comitati ristretti sulla attuale riforma del sistema elettorale da parte dei partiti della “strana maggioranza”, garante di questo regime di democrazia sospesa, rischiano di ridursi a solipsismo se ad essere oggetto di revisione saranno le preferenze, i listini bloccati, l’entità del premio di maggioranza, la ridefinizione geo-sociale di collegi e circoscrizioni, le quote rosa o l’anacronistica questione del numero dei parlamentari e non, invece, il superamento strutturale dell’impianto maggioritario e delle proibitive soglie di sbarramento che ne costituiscono i presupposti funzionali.
A sostegno di un auspicato ritorno ad un sistema elettorale davvero proporzionale, ci permettiamo di aggiungere tre argomenti a nostro giudizio incontrovertibili. Innanzi tutto l’attuale “grande coalizione” è la dimostrazione più evidente dell’inutilità del sistema maggioritario; il fatto che la riforma elettorale venga scritta proprio da esponenti dei partiti che puntellano un governo
che gode della fiducia del Quirinale, ma non del popolo rappresenta, inoltre, un clamoroso esempio di conflitto di interessi – o almeno di contraddizione giuridico-politica – finora da nessuno sollevato.
In secondo luogo, la presa d’atto che negli ultimi vent’anni, da quando cioè si data l’inizio della cosiddetta seconda repubblica, l’Italia ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo economico al quale ha fatto da corollario l’arretramento di posizioni in termini di quote di mercato globale, di equità sociale, di equiripartizione delle risorse, di mantenimento dei diritti, di protezione delle aree più deboli del Paese, di efficienza nell’amministrazione statale e nei servizi pubblici, di ammodernamento delle infrastrutture. Forse non è errato porre questi storici fallimenti in relazione all’adozione proprio due decenni fa di un sistema maggioritario nel quale la governabilità è stata soppiantata da un reciproco potere di veto e di interdizione delle decisioni non eliminabile con un
articolo di legge che fissa artificiali premi di maggioranza parlamentare privi di copertura sociale, sorta di sistema forzoso con schede elettorali non convertibili.
La terza argomentazione riposa su un fenomeno da tempo strisciante al quale non sono estranee le crescenti tensioni occupazionali e le relative ricadute economiche e sociali. Esso è rappresentato da una pericolosa segmentazione della società italiana in fasce di età. Non più, cioè, una fisiologica dialettica giovani-anziani, ma una esplosione di contrapposti segmenti di età (ad esempio 18-28, 28-40, 40-55, 55-67) ognuno dei quali potrebbe cercare e trovare una proiezione istituzionale in soggetti politici di nuova concezione non più interpreti di differenti istanze economico-categoriali o politico-ideologiche, bensì rappresentanti di interessi peculiari di una certa età anagrafica, in spregio alla solidarietà intergenerazionale. Tanto più che per “giovani” si intendono sia i 35-40enni ancora in cerca di occupazione sia
i 60enni lavorativamente “non ancora anziani” con quasi altri dieci anni di lavoro da svolgere grazie alla riforma delle pensioni. Insomma uno scenario “a tendere” nel quale gli over 70 saranno chiamati socio-politicamente a competere col resto del mondo. Un fenomeno dagli impatti futuri giganteschi, completamente disconosciuto nelle analisi e nei dibattiti dei partiti dell’attuale maggioranza e che l’imminente riforma si dimostrerà incapace di anticipare e governare.
Una ragione, quest’ultima, sufficiente da sola a rendere auspicabile il ritorno ad un virtuoso sistema proporzionale in grado di disinnescare nella società potenzialità centrifughe e disgregazioni della coesione nazionale.Stefano De Rosa