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L’autunno caldo di Bengasi Responsabilità post-mortem. |
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Colpa di Gheddafi pure stavolta. Una folla di islamisti inferociti attacca il consolato statunitense a Bengasi, uccidendo l’ambasciatore Chris Stevens, due marine e un membro dell’intelligence e la dirigenza libica parla di coinvolgimento dei sostenitori dell’ex leader delle rivoluzione verde, ucciso poco più di un anno fa. Ieri, il mattino dopo l’assalto, dai “nostalgici del colonnello”, non è tuttavia giunta nessuna conferma, mentre il balletto delle rivendicazioni è iniziato con il comunicato – poi, secondo la Bbc, smentito nel tardo pomeriggio - del gruppo islamista radicale Ansar al-Sharia, i cui membri agiscono anche in Siria e Yemen, che ha voluto vendicare l’uccisione di Abu Yahya al-Libi, cittadino libico e numero due di al-Qaida la cui morte è stata confermata nei giorni scorsi dall’organizzazione dopo che a giugno era stata annunciata da Washington. Proprio allora una bomba era stata fatta esplodere nel muro di cinta del consolato Usa di Bengasi. Stavolta, al consolato statunitense e ai suoi abitanti è andata peggio. Bengasi, la zona storicamente più calda della Libia, è diventata martedì notte teatro della vendetta islamista, fomentata da un altro fattore scatenante: l’uscita di un film giudicato blasfemo. Una pellicola che già lunedì in Egitto aveva causato un assalto alla sede diplomatica statunitense. Pare che il regista, un israelo-americano, tale Sam Bacile, abbia pure definito l’Islam “un cancro”, comprensibile che certe frange islamiste poco propense al confronto non l’abbiano presa bene. Ovviamente tutto il mondo ha condannato l’assalto, negli Usa è diventato argomento da campagna elettorale, con Romney e numerosi altri repubblicani che hanno attaccato Obama per la reazione - definita troppo blanda – all’uccisione del rappresentate statunitense. Dopo avere cercato di accollare la responsabilità al fantasma di Gheddafi, il sottosegretario all’Interno libico, Wuannis al-Sharef, vista l’evidenza dei fatti ha cambiato obiettivo. Per cercare forse di mettere in secondo piano l’incapacità del governo libico di controllare il Paese, ha attribuito parte della responsabilità del tragico epilogo alle autorità nordamericane “che erano state avvisate della presenza di uomini armati e non hanno preso le dovute precauzioni. (…) Nonostante ci fosse già stato un incidente simile quando Abu Yahya al-Libi è stato ucciso”. Secondo le testimonianze raccolte dalla stampa libica, la sede di rappresentanza Usa è stata data alle fiamme, la bandiera a stelle e strisce strappata e bruciata e sostituita con quella nera dell’Islam. Nemmeno quella della Libia monarchica usata a suo tempo dai ribelli. Eterogenesi dei fini made in Usa. Lo coccolano l’Islam radicale, lo finanziano, lo blandiscono. È il falso Islam, quello utile alla bisogna, quando occorre trovare un capro espiatorio, oppure quando occorre abbattere governi “non allineati”. Governi laici in Paesi musulmani, come in Siria. L’ultima tendenza è quella di confondere la capacità di tenere a bada le pulsioni più estremiste degli islamisti con la repressione della libertà. È su questo giochino che si tiene in piedi l’aggressione mediatica e politica contro Damasco. Ma ogni tanto l’azzardo si paga. E la possibilità è che domani, in un futuro indefinito ma chiaramente prossimo, tutto questo – come una bomba maneggiata senza la dovuta attenzione – esploderà nelle mani di chi manipola e gioca coi fatti del mondo. Ieri, in Libia, è stato dato un assaggio del dazio che l’occidente si troverà a pagare. Nella Libia “liberata” dai bombardamenti internazionali e consegnata a un minestrone di clan, tribù e gruppi islamici che se la contendono da un anno a questa parte. Gli integralisti salafiti, armati, sovvenzionati e addestrati da Paesi arabi filo-statunitensi e servizi segreti occidentali hanno preso il Paese e ora se lo vogliono tenere, conformato secondo la loro visione del mondo. Che sia stato un film considerato blasfemo o l’uccisione di un leader di al Qaida a scatenare l’assalto di martedì notte all’ambasciata Usa di Bengasi è un dato poco significativo. Potrebbero valere entrambe le ragioni. Quel che conta è che è stato colpito il massimo rappresentate di Washington nel Paese. Non sono riconoscenti questi islamici integralisti, da Usa e alleati hanno ricevuto una bella spinta ma ora vogliono decidere loro come vivere nella nuova Libia, un progetto che non prevede concessioni al western style. Alessia Lai L’Egitto al fianco dell’Occidente contro la Sira Dopo le monarchie del Golfo e la Turchia, da ieri anche l’Egitto sembra ormai essere schierato ufficialmente al fianco dell’Occidente nella sua “crociata” per rovesciare le autorità di Damasco e prendere il controllo della Siria. D’altronde con l’ascesa al potere nel Paese nordafricano dei Fratelli Musulmani, non ci si poteva aspettare altro. Da oltre 40 anni, infatti, questi ultimi sono avversi alla leadership siriana, al presidente Hafez al Assad prima e a suo figlio Bashar poi, e non è certo un caso che siano proprio loro a guidare le opposizioni estere riunite nel Cns di Istanbul. Secondo quanto riferito da alcune fonti anonime della presidenza egiziana, negli incontri delle ultime settimane fra i vertici de Il Cairo e quelli di Teheran, Mohamed Morsi avrebbe proposto al suo corrispettivo Mahmoud Ahmadinejad un aiuto concreto per uscire dall’isolamento internazionale, in cambio però l’Iran avrebbe dovuto interrompere il proprio appoggio al governo siriano, così da facilitare la fine di un conflitto che va avanti da 18 mesi. Stando alle indiscrezioni la volontà del capo di Stato egiziano sarebbe quella di creare un “Quartetto islamico”, con la partecipazione di Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Iran, che possa riuscire dove le altre iniziative hanno fallito. Le fonti affermano infatti che Morsi si è ormai convinto che né le autorità di Damasco, né i ribelli, siano in grado di vincere la guerra civile attualmente in corso e che questo possa creare una forte condizione di instabilità con gravi conseguenze per l’intera regione. “L’Egitto – affermano i funzionari che hanno voluto mantenere l’anonimato - è convinto che ciò che avverrà in Siria sotto al Assad sarà peggiore di ogni cosa al mondo vista finora. Per questo ritiene che prevenire spargimenti di sangue sarà un enorme successo”. Per convincere il presidente della Repubblica islamica a sposare il suo a dir poco ambizioso progetto, Morsi avrebbe garantito un salvacondotto per il presidente siriano, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori, e si sarebbe offerto di mediare con le nazioni arabe del Golfo per migliorare i rapporti fra queste ultime e Teheran. Una mediazione quasi impossibile considerate le rivalità storiche e i contenziosi fra i regni sunniti della penisola araba e l’Iran, Paese sciita. Per ora nessuno dei due Stati tirati in ballo dalle fonti anonime ha voluto commentare le indiscrezioni, tuttavia pochi dubbi sussistono sia riguardo la posizione egiziana sulla questione, sia su quella dell’Iran, che insieme alla Russia resta il principale alleato di Damasco e che sulla Siria si gioca una buona parte di credibilità. E al contrario di quanto sperato dal fronte interventista, il numero degli alleati del Paese arabo sembra destinato a crescere. Ieri, infatti, il presidente venezuelano, Hugo Chávez, si è detto disposto a “valutare” la proposta di Teheran di entrare a far parte di un gruppo di contatto sulla crisi siriana composto dai cosiddetti Paesi non allineati. “Se possiamo in qualche modo essere d’aiuto, magari, per ottenere la pace per la Siria, dove un popolo è travolto da questa politica imperiale e violenta, lo faremo”, ha detto Chávez, che ha poi espresso il timore che il prossimo fronte della guerra imperialista possa essere proprio il Venezuela.Matteo Bernabei Il presidente ad interim scrive all’Onu Da nove mesi il Mali è un Paese spaccato in due: il nord in mano ai ribelli islamici, il sud al governo di Bamako. La situazione non si sblocca. Nonostante sia stato formato un nuovo esecutivo, guidato dal presidente ad interim Dioncounda Traoré, le regioni settentrionali sono ancora sotto il controllo dei gruppi armati di Ansar al Dine e del Mujao, che hanno imposto la sharia, creando grande disagio tra la popolazione locale che fino a qualche mese fa viveva in uno Stato laico. Lapidazioni, frustate e mutilazioni della mani sono all’ordine del giorno. Vengono chiamati i “talibani” maliani. Hanno distrutto mausolei e beni storici di Timbuctù, la perla del deserto, considerata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, suscitando l’indignazione della comunità internazionale. Non è ancora chiaro, a distanza di mesi, chi ci sia dietro alla ribellione dei tuareg del Movimento per la liberazione dell’Azawad e dei gruppi islamici. Né tantomeno chi ci sia stato dietro al colpo di Stato che ha deposto l’ex presidente Touré. Qatar, Francia, Stati Uniti sono i primi indiziati. Il Mali è infatti ricco di giacimenti minerali, tra cui uranio e petrolio, non ancora esplorati che fanno gola a parecchie multinazionali. Al di là degli interessi economici, l’urgenza è riprendere il controllo delle regioni settentrionali. Per fare questo, il presidente ad interim ha chiesto l’aiuto delle Nazioni Unite. Fonti della presidenza maliana hanno fatto sapere, tramite Twitter (@PresidenceMali) che Dioncounda Traoré ha scritto una lettera al segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon chiedendo “sostegno e accompagnamento per far fronte alla peggior crisi della storia” del Mali. La notizia è stata confermata a Jeune Afrique da una autorità del governo secondo cui la lettera porta la data del 30 agosto, due giorni prima della richiesta formale di aiuto trasmessa dallo stesso Traoré alla Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao-Ecowas). “È la peggiore crisi dell’esistenza del Mali” ha sottolineato la fonte governativa, “con due terzi del suo territorio occupato da gruppi armate” e “ con le fondamenta della sua democrazia minacciate”. Pertanto, Traoré avrebbe chiesto all’Onu un “appoggio per rafforzare le proprie capacità in materia di assistenza umanitaria, di negoziato e di riforma delle forze di sicurezza”. La fonte vicina al governo ha, inoltre, precisato che il presidente ad interim non avrebbe chiesto alla Cedeao- Ecowas “il dispiegamento di contingenti stranieri”, come invece era trapelato dalla stampa maliana. Del resto, anche il capitano Amadou Sanogo, capo dell’ex giunta militare, in un intervento alla tv pubblica, ha detto che “per ora non sono state richieste truppe per la sicurezza delle istituzioni della Repubblica (…) né per recuperare l’integrità territoriale”. “Quando le nostre forze armate e di sicurezza ne sentiranno il bisogno, chiederanno di farsi aiutare dai vicini fratelli” ha sottolineato Sanogo. Per ora alla Cedeao- Ecowas è stato chiesto “aiuto logistico” e “non militare”. In attesa di sapere cosa deciderà l’organismo regionale che si riunirà il 17 settembre ad Abidjan, le notizie che arrivano dal nord non sono buone. Secondo diversi siti d’informazione maliana, sarebbero rimasti feriti in scontri avvenuti qualche giorno fa un alto responsabile del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), il colonnello Bamoussa, e il capo di Ansar Al Dine, Iyad Ag Ghali, mentre una cinquantina di miliziani avrebbero perso la vita e altri feriti sarebbero ricoverati a Gao e Kidal. Scontri che hanno visto come protagonisti un’ala del Mnla alleata ad Anasr al Dine e il Mujao. Nelle ultime settimane, sono emerse divisioni tra gli islamici del Mujao e quelli di Ansar Al Din, dall’altra i tuareg sono in rotta con il Mujao e lo stesso Mnla si è scisso in due fazioni; tra i tuareg c’è chi vede di buon occhio un avvicinamento con Ansar Al Din e chi invece non vuole sentire parlare di Iyad Ag Ghali. Tensioni che rendono ancora più difficile la vita alla popolazione locale, esausta e provata dalla guerra e dalla carestia.Francesca Dessì |
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