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Una rivoluzione necessaria per rifondare la politica |
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Il patetico ed estenuante stillicidio di incontri e dichiarazioni che da mesi accompagna il dibattito tra le delegazioni delle maggiori forze partitiche sulla riforma della legge elettorale, arricchito da moniti e stimoli delle più alte cariche dello Stato, rischia di accentuare lo iato tra cittadini ed istituzioni politiche. La produzione cerebrale finora conseguita dal brain storming – concentrato più sulla ricerca delle larghe intese che sulla cura della malattia della politica – risulta già compromessa da un vizio di origine o, almeno, da intenti contraddittori. Ci riferiamo al taglio delle poltrone in Parlamento, uno degli aspetti demagogici maggiormente propagandati dai sedicenti riformatori, da quei puntelli assembleari della tecnocrazia al potere che dovrebbero, invece, vituperare e stigmatizzare d’ufficio ogni populismo. Disporre la diminuzione del numero dei parlamentari, ad esempio, dagli attuali 945 a 600 (400 alla Camera e 200 al Senato) determinerebbe un alleggerimento dei costi della politica; almeno così assicurano gli efficientisti in servizio permanente effettivo in cerca di risparmi. Ma il punto, a nostro avviso, è un altro. La giustificazione causale della riduzione del numero di deputati e senatori non poggia direttamente su argomenti di matrice economica. Il sentimento collettivo favorevole al taglio di ingiustificati privilegi e prebende che da sempre accompagnano le carriere parlamentari, spesso pluridecennali (l’attuale ed un ex presidente della Camera, a Montecitorio da trent’anni, sono ancora considerati il nuovo che avanza), muove da ragioni riferibili all’etica. L’aspetto economico costituisce, dunque, l’ovvio corollario, non certo lo stimolo primario dell’auspicato (da molti) abbattimento di poltrone. Ciò premesso, un semplice contenimento del numero dei parlamentari sancito per legge risponderebbe, quindi, ad una logica soltanto economica, conseguendo i presunti risparmi, ma marginalizzando quelle ragioni etiche che dovrebbero, invece, connotare un provvedimento legislativo di tale natura. Come ricomprendere l’istanza etica all’interno della riforma della legge elettorale? Tralasciando le implicazioni tecniche, quali preferenze, listini, circoscrizioni geo-sociali, quote rose, ecc., una riforma davvero rivoluzionaria sarebbe costituita – nell’ambito ovviamente di un impianto proporzionale – dall’attribuire rilevanza istituzionale all’area del “non voto”: un astensionismo pari al 25% dovrebbe determinare, cioè, la mancata assegnazione del 25% dei seggi. Solo ed esclusivamente in questo modo tutti i segmenti della popolazione vedrebbero la propria scelta – comunque espressa – seguita da una adeguata proiezione istituzionale, nel pieno rispetto dell’art. 48, secondo comma, della Costituzione. Una sacrosanta protesta antisistema ed antagonista sarebbe convogliata, e dunque contenuta, nell’alveo di una chiara previsione legislativa e contribuirebbe a depotenziare la disaffezione del popolo per la politica e la suggestiva proliferazione di liste o movimenti anti-casta estemporanei. Il politicamente irresponsabile astensionismo, superando lo sterile stadio della rabbia, smetterebbe di fomentare ed essere fomentato da insofferenza, prima del voto, e frustrazione, ad urne chiuse. A trarne beneficio – non sembri un paradosso – sarebbe proprio la politica o, per meglio dire, l’offerta di contenuti che ogni singolo partito sarebbe indotto a proporre al corpo elettorale, innescando una sana e virtuosa competizione tra idee e programmi, con i partiti che cesserebbero per la prima volta di lucrare vantaggi numerici (in percentuale e in seggi) dal comodo astensionismo. Tale riforma, inoltre, sarebbe compatibile con il ritorno, auspicato da molti, al sistema delle preferenze abbandonato dal “porcellum”. Ottenere un risparmio di tre o quattrocento parlamentari, partendo dai quasi mille attuali, sarebbe senz’altro socio-politicamente preferibile che averne comunque seicento senza la possibilità di poterne abbattere il numero con un atto volitivo. A proposito di differenza tra economia ed etica. Ecco l’unica rivoluzione che conterrebbe in nuce le potenzialità per decurtare costi, privilegi e rendite da posizione di opportunisti ed affaristi prestati alla res publica e per rimettere al centro la sovranità popolare non più mutilata di consistenti porzioni di volontà politiche, soprattutto quelle più critiche verso le degenerazioni della partitocrazia.Stefano De Rosa |
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