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L`India costretta ad aprire alle multinazionali straniere
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L’India a un passo dalla crisi di governo dopo l’approvazione delle controverse riforme economiche e liberalizzazioni guidate dal primo ministro Manmoha Singh. Tra le più discusse e contestate la norma che prevede l’apertura del mercato indiano alle grandi catene di supermercati stranieri. Giovedì scorso milioni di persone sono scese in piazza in tutto il Paese in seguito allo sciopero generale indetto da sindacati e partiti di opposizione, specialmente la sinistra e i nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party. Secondo i critici, l’arrivo delle grandi multinazionali straniere (come la statunitense Walmart, la britannica Tesco o la francese Carrefour) metterebbe in crisi i milioni di piccoli negozianti, che in India rappresentano ancora la principale fonte di approvvigionamento. Per protesta il partito bengalese Trinamool Congress (Tmc) – una delle principali forze politiche all’interno della coalizione di governo guidata dal National Congress (Tnc) di Sonia Gandhi – ha abbandonato il governo e ieri ha presentato le dimissioni dei sei suoi ministri, tra cui quello delle Ferrovie. Alla fine Singh è riuscito a spuntarla – almeno per il momento – grazie all’appoggio dei deputati del Samajwadi party (partito regionale dell’Uttar Pradesh) e dei centristi del Bahujan Samaj Party. Ma il futuro si preannuncia ancora piuttosto travagliato per Singh e la sua coalizione, e si prevedono altri duri scontri. A venire contestato è l’interno pacchetto di riforme economiche proposto dal governo, che ha già alzato del 14% il prezzo del diesel per uso domestico per risanare il deficit di bilancio. Quello della grande distribuzione, infatti, non è il solo settore strategico che sarà aperto agli investimenti privati stranieri. È prevista infatti la parziale (fino al 49%) privatizzazione delle grandi industrie nazionali nel campo dell’energia e delle materie prime, come la Oil India e la National Aluminium. Aperto anche il mercato dell’aviazione civile, con la possibilità per le compagnie aeree internazionali di acquistare fino al 49% di quelle nazionali. Il governo sostiene che queste misure serviranno a rilanciare l’economia indiana, sulla quale aleggiano cupe ombre di crisi. La crescita rallenta, l’inflazione è in aumento, il deficit dello Stato cresce, così come il prezzo dell’energia, sia per i rincari del greggio che per la flessione della Rupia. Le agenzie di rating sembrano già minacciare il declassamento. L’enorme blackout che alla fine di luglio ha messo in ginocchio mezzo Paese e lasciato al buio centinaia di milioni di indiani ha dimostrato tutta l’arretratezza intorno alla crescita indiana. Con l’apertura del Paese ai capitali stranieri, Singh spera di dare un nuovo impulso all’economia e allo sviluppo. In particolare, per quanto riguarda la grande distribuzione, la speranza è che l’arrivo dei colossi stranieri porti con sé un ammodernamento delle infrastrutture. Un esempio su tutti, la cosiddetta catena del freddo: si stima che, a causa di strade dissestate, continui cali di tensione e assenza di celle frigorifere per il trasporto delle merci deperibili, ogni giorno in India quasi un terzo dei prodotti agricoli marcisca prima di raggiungere i banchi del mercato o venga buttato per l’impossibilità di mantenerli freschi per l’intera giornata. Allo stesso tempo, questa arretratezza nel sistema di distribuzione indiano ha fatto la “fortuna” dei piccoli commercianti e dei negozi di quartiere spesso a conduzione familiare. Non a caso le statistiche indicano che, nonostante la presenza di grandi magazzini indiani come Future Group o Reliance, le vendite al dettaglio da parte dei supermercati e delle catene di negozi rappresentano in India solo l’8% del totale, contro il 20% in Cina e ben l’85% negli Stati Uniti. Ma da tempo ormai le grandi multinazionali straniere guardano con sempre maggiore interesse al mercato indiano, dove, a fronte di 450 milioni di poveri, esiste anche una classe media di 300 milioni di persone in crescita. E per fare in modo che anche le società statunitensi possano approfittare di questa torta – finora la Walmart è riuscita a entrare solo nella distribuzione all’ingrosso mettendosi in società con il re dei telefonini Bharti – è sceso in campo lo stesso presidente Usa Barack Obama, che in un’intervista di luglio al Press Trust of India ha criticato senza giri di parole il “clima contrario agli investimenti diretti esteri in India”. L’India, ha dichiarato Obama, “ha continuato a crescere a un ritmo impressionante. Ma molte aziende statunitensi ci informano che è ancora molto difficile investire in India. In molti settori come quello della vendita al dettaglio l’India limita o proibisce gli investimenti diretti esteri che potrebbero creare posti di lavoro, sia in India che nel nostro paese, e che sono necessari per continuare a crescere”. Alla fine il governo di Nuova Delhi – che già lo scorso dicembre era stato costretto a ritirare una simile riforma dopo appena una settimana a causa delle infuocate proteste – sembra aver ceduto alle richieste del mercato e dell’importante alleato statunitense. Appare comunque la volontà di mantenere alcuni paletti. Nel commercio, ad esempio, gli investimenti stranieri saranno possibili solo nelle città con oltre un milione di abitanti (che sono 51 in India) e per un minimo di 100 milioni di dollari. La metà di questa somma dovrà essere spesa nelle infrastrutture, come appunto la catena del freddo. Inoltre il 30% della merce dovrà provenire da piccole e medio imprese locali. Sulla carta sembrano essere valide garanzie, ma l’esperienza ci insegna a guardare con particolare prudenza a privatizzazioni e liberalizzazioni, specialmente quando coinvolgono massicciamente multinazionali straniere.Ferdinando Calda
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