Un popolo alla ricerca di altra politica
 







di Giovanna Pajetta




Contare non le ha contate nessuno. Nemmeno ai piani alti della Rcs Rizzoli, dove si pensava di aver programmato e organizzato tutto, o nelle stanze del Corriere della sera da cui adesso, praticamente ogni giorno, Sergio Rizzo e Gianantonio Stella partono per città e paesi. Perché dietro le mille recensioni, gli inviti ai talk show televisivi (unica eccezione, degna di vanto, Porta a porta di Bruno Vespa), il libro dell'anno è diventato anche l'ospite d'onore di centinaia di dibattiti. Nati per l'appunto come semplici presentazioni, ma diventate quasi subito qualcosa di ben diverso. Con la gente in piedi, che alza la mano e aspetta il suo turno, che si rimbecca o racconta la sua storia, trasformando autori e relatori in semplici spettatori. Spesso stupefatti, o travolti da ciò che loro, che come fa Sergio Rizzo ancora amano chiamarsi solo «giornalisti», hanno innescato. «Hai presente le assemblee degli anni '70? - racconta il cinquantenne vice caporedattore del Corriere - Ecco vai lì e ti sembra di essere tornati a quei tempi. Ormai è così ovunque, noi praticamente non diciamo quasi niente, ma loro non smetterebbero più di parlare». Di politica, ovviamente. Ma a differenza di quanto si pensa, e si scrive, perché se ne sente un gran bisogno, non perché abbia stufato tutti.
Un fenomeno in sé
Spinte dalla casa editrice, le prime, richieste a gran voce da associazioni come la Confartigianato o da club che si vorrebbero esclusivi come il Rotary, le presentazioni de La Casta sono diventate nel giro di due o tre mesi un fenomeno in sé. Del resto, come ammette onestamente Rizzo «il libro ha semplicemente interpretato qualcosa di già diffuso, se no non avrebbe venduto le copie che ha venduto». Ha scoperchiato un vaso, ma non sempre ne è venuto fuori un verminaio. All'inizio, alla prima videochat tenuta da Stella a Milano (più di mille domande, diventate 2500 quando si è fatto il bis) c'è stato chi non resisteva
all'idea di delegare di nuovo o scatenare la protesta. «Fate un movimento» dicevano, «mettiamo le lenzuola alla finestra con su scritto 'ora basta'». Poi però, è prevalsa la voglia di parlare e anche il pubblico nelle librerie o nelle decine di circoli culturali da Biella a Palermo o Treviso, ha cominciato a mutare. «Prima si vedevano per lo più uomini e facce mature - racconta infatti Rizzo - Poi sono arrivate le donne, i giovani. E sono loro quelli che dicono le cose meno strampalate». Come quel ragazzo di diciassette anni che, a Spoleto, si è alzato e ha cominciato a spiegare che lui si sentiva a disagio perché vorrebbe fare politica, ma non sa come cominciare. «A me sembrava una domanda così, un po' assurda, gli ho detto 'perché non vi organizzate a scuola?' Ma lui mi ha guardato come se fossi io a vivere sulla luna. E gli altri annuivano, davano ragione a lui. I giovani sono quelli che ti colpiscono di più». E ti mettono un po' di tristezza, vien da dire. Perché sono i più sconfortati, anche quando più che alla politica pensano al lavoro. A Castelfidardo ad esempio, il paese delle fisarmoniche, hanno incrociato le lame due giovani. Uno di destra e uno di sinistra. Ma distinguerli, quando il primo raccontava una storia di precarietà e l'altro il suo sogno («che non raggiungerò mai») di entrare all'università una volta finito il dottorato, non era alla fine così facile, visto che il paese che raccontavano era lo stesso, un'Italia bloccata da una politica invadente quanto assente. Perché su questo anche Rizzo la pensa come Ilvo Diamanti, è vero che della casta si raccontano gli sprechi, ma non sono i soldi, è l'insipienza e l'impotenza a fare infuriare. «Voi avete dimostrato di essere degli incapaci, andatevene tutti a casa» come ha gridato una signora di mezza età a Carlo Giovanardi e Valdo Spini, ospiti di riguardo della presentazione di Marina di Massa. E anche sul campo si tocca con mano ciò che hanno raccontato i sondaggi dopo la travolgente apparizione di Beppe Grillo. «Dovunque, tra il pubblico, capisci che è pieno di gente di sinistra, o meglio di centrosinistra e quella che senti è la loro indignazione, la loro profonda delusione - è sempre Rizzo che racconta - Mi ha colpito il fatto che molti, anzi direi moltissimi hanno fatto il paragone, deluso, tra i tempi di Berlinguer e quelli di adesso. C'è l'amarezza di chi ha verificato che certi comportamenti, l'arroganza, la boria, la strafottenza di una politica autoreferenziale, in realtà non appartengono solo al centrodestra».
È gente per bene
Certo, quando si grida contro i palazzi e il governo è dell'Unione, è ovvio che il primo nemico dell'antipolitica sia proprio il centrosinistra. Ma a sentire chi le ha vissute, alle «assemblee» sulla casta si grida poco. Qualcuno che svirgola lo si trova sempre, quello che se la prende con i gay, quello che accusa il libro di aver voluto tacere sulla mafia o chi, nella ricca Santo Stefano, proclama «Se è così,
allora non paghiamo più le tasse». Ma perlopiù è gente per bene, come gli elettori del Partito democratico che si sono messi in fila per firmare le petizioni di Grillo (l'8 settembre erano addirittura il 60%, secondo Demos-Eurisko), e spesso invece che alla rivolta pensano a una desolata defezione. Come quel signore che in Maremma, a Poderi di Montemerano, suggeriva di fare «come Saramago», raccontando a tutti l'inizio di Saggio sulla lucidità, che si apre con una giornata elettorale in cui, spontaneamente, tutti rimasero a casa e nessuno votò. Una provocazione non da poco, visto che per anni è stata la destra a temere la diserzione delle urne. Del resto Rizzo non ci sta a essere tacciato da fomentatore dell'antipolitica. Tipo pacato e riservato, quasi si inalbera mentre dice «questo è il termine che hanno usato alcuni esponenti politici, ma non è un caso che l'abbiano tirata fuori proprio quando si è cominciato a parlare dei costi della politica. Vorrei sapere cosa c'è di qualunquistico nel chiedere la trasparenza o raccontare che il Quirinale costa quattro volte di più di Buckingham Palace e che i contributi ai partiti godono di agevolazioni fiscali 50 volte superiori a quelle delle associazioni benefiche». Anzi, lui salva persino Beppe Grillo, anche se dopo un rituale «nella storia la satira e i comici sono sempre stati importanti per svelare le malefatte del potere», aggiunge ironico «in effetti il vaffa day non ha stimolato il mio interesse intellettuale». E, a riprova di quanto sia grande l'insofferenza, racconta quel che è successo in un paese della Toscana. Dove nel bel mezzo della presentazione un parlamentare diessino si è fatto i conti in tasca davanti a tutti. «Lui sentiva che doveva dirlo, e ci teneva a sottolineare la sua diversità, perché una parte non piccola la dava al partito». Ma chi parla di antipolitica, non sempre lo fa a vanvera. Massimo D'Alema, come Sergio Romano e molti altri, hanno cominciato ad esempio ad allarmarsi e ad agitare lo spettro degli anni '90. Quando la rivolta spazzò via una casta tutta intera.
Quando chiedo a Rizzo se davvero si respira la stessa aria, lui prima dice no, poi dice forse. «Allora si scoprì l'esistenza di una corruzione diffusa e che molti, se non tutti, avevano la coscienza sporca. Ma la differenza fondamentale tra oggi e il 1992 o 1993 è che c'era la Lega e poi arrivò Berlusconi e si poteva attribuire a loro, a questi soggetti nuovi, il compito di cambiare le cose» ricorda. C'era insomma quello che in gergo si chiama «l'attore politico», un partito o un uomo (distinguere è ormai sempre più difficile) capace di brandire come un'arma e trasformare in nuova politica l'insofferenza popolare. Tutto questo ora non c'è, con buona pace degli abitanti dei nostri palazzi. Ma il guaio è che se passiamo dai piani alti a quelli bassi, le somiglianze ci sono.
Riappropriarsi della parola
«Nel sentimento della gente si sentono delle analogie con quegli anni -
ammette Rizzo, che allora da giornalista faceva inchieste da levare la pelle ai declinanti politici della prima repubblica - Anche adesso si riconosce che il sistema non va, che è inefficiente, costoso e soprattutto, perché questo a mio parere è il punto dolente di oggi, ha rapporti sempre più flebili con la società civile».
Ed è da qui che, forse, nascerà qualche differenza e qualche speranza. Perché in realtà, scoraggiato o infuriato che sia, il pubblico delle «assemblee» non pare poi così pronto a delegare o deciso ad abbandonare il campo. «Quello che io vedo è un'altra cosa - conclude così, con un pizzico di ottimismo, l'autore de La Casta - C'è una gran voglia di riappropriarsi della parola, di discutere, perché la gente è stata per troppi anni muta davanti a televisori dove si alternavano i personaggi più improbabili. C'è un bisogno fortissimo di riappropriarsi della politica, cioè di una cosa che gli è stata tolta, di cui sono stati privati: dalla televisione e da una classe
politica che ha smesso di parlare con loro».da il manifesto