“Miracolo” economico italiano…
 











Le operazioni predatorie, messe a segno in campo borsistico soprattutto a Milano, a Piazza degli Affari, e compiute da illustri personaggi del mondo industriale e finanziario nel periodo a cavallo fra l’immediato secondo dopoguerra e il cosiddetto “boom” economico, portarono questi capitani d’industria – che approfittavano dell’antiquata legislazione concernente le società per azioni – ad accumulare, in pochissimo tempo, colossali fortune, utilizzando le imprese come fossero pedine sulla scacchiera della Borsa.
Il caso dell’Italcementi di Bergamo, di proprietà dell’ingegner Carlo Pesenti, presidente e direttore generale della società, è emblematico di un tale stato di cose, e la società in quegli anni era il prototipo della grande azienda parassitaria che concludeva i migliori affari nei gabinetti dei ministri, traendo il massimo profitto dalla carenza di argini giuridici in grado di contenere l’azione aggressiva delle S.p.A. entro i delimitati
confini dell’interesse generale. L’impulso straordinario dato dai governi dell’epoca alla cementificazione del territorio italiano, talvolta selvaggia, contribuì in misura notevole allo sviluppo e alla prosperità del Gruppo Italcementi, il quale, se leggiamo il rapporto – stilato da Mediobanca – riguardante gli indici e i dati relativi a investimenti in titoli quotati nelle Borse italiane (1948-1960), nell’esercizio 1959 fatturò 35 miliardi e 92 milioni di Lire, occupando in media 5.300 dipendenti. Al 31 dicembre 1959 il suo portafoglio titoli era segnato in bilancio per 12 miliardi e 819 milioni, e la produzione di cemento del Gruppo, secondo quanto riportò la relazione di bilancio di tale gestione, rappresentava più del 35% del totale nazionale (Nota del gennaio 1961). E fra i bilanci ermetici delle maggiori società industriali italiane, il rendiconto della Italcementi era forse quello che raggruppava le cifre in un minor numero di voci, esponendole nel modo più incomprensibile. Il cemento allora si poteva considerare senz’altro un’industria chiave della nostra economia, e l’Italcementi svolgeva un ruolo di rilievo in questo contesto. Tuttavia, era praticamente impossibile conoscere come veniva amministrata la società, né tanto meno sapere come era composto il suo portafoglio titoli e neppure quali fossero i reali rapporti finanziari con le società nelle quali l’ingegnere era direttamente o indirettamente interessato.
Collegate all’Italcementi erano le seguenti aziende del settore: Cementerie Siciliane (capitale 1 miliardo e mezzo), Cementerie della Puglia (cap. 1 miliardo e mezzo), Cementerie di Sardegna (cap. 1 miliardo), Sacelit Manufatti Cementi (cap. 500 milioni), Siciliana Sacelit (cap. 200 milioni), Cementerie Apuane (cap. 360 milioni), Cementi Portland (cap. 300 milioni), Calce Idrati d’Italia (cap. 90 milioni). E inoltre, della finanziaria Italmobiliare (cap. 5 miliardi), figlia dell’Italcementi, Pesenti era direttore generale, e di un’altra
finanziaria, Strade Ferrate Meridionali (cap. 42 miliardi), il nostro era uno dei più grossi azionisti e consigliere di amministrazione. E l’Italmobiliare, sorta nel 1946 per amministrare, fuori del suo bilancio, attività non strettamente connesse all’industria del cemento, costituiva l’enorme calderone in cui la società madre poteva occultare tutti i suoi affari poco trasparenti.
Gli interessi del Pesenti non si limitavano dunque al mondo del cemento, e infatti ricopriva anche la carica di vicepresidente della Riunione Adriatica di Sicurtà (le assicurazioni RAS), con un capitale di 4 miliardi e 320 milioni, delle Ferrovie di Valle Seriana (cap. 241 milioni), e della Ferrovia Elettrica di Valle Brembana (cap. 121 milioni). Era pure membro, e importante azionista, dei consigli di amministrazione di Edisonvolta (cap. 140 miliardi), Acciaierie Ferriere Lombarde Falk (cap. 12 miliardi), Orobia (cap. 20 miliardi), Generale Immobiliare (cap. 20 miliardi), Efibanca (cap. 31 miliardi),
Banca Provinciale Lombarda (cap. 1 miliardo), Franco Tosi (cap. 2 miliardi e 500 milioni), Credito Commerciale (cap. 1 miliardo). E nei consigli di queste imprese era una costante la presenza di esponenti delle organizzazioni finanziarie contigue al Vaticano, a cui Pesenti si sentiva strettamente legato. E suoi uomini di paglia sedevano nei consigli di amministrazione delle società Nastrocellulosa e Burgo, consorziate con altre aziende cartarie per riscuotere, attraverso la vendita dei sacchetti per l’imballaggio, una taglia sui consumatori del cemento, e poi c’era Comedile, società commerciale incorporata nel 1955 da Sacelit e tramite la quale l’Italcementi rivendeva il cemento – in determinate situazioni – al mercato nero praticando importi molto più elevati rispetto a quelli stabiliti dal comitato interministeriale prezzi. Gli affari di Pesenti spaziavano anche nell’editoria, e nei consigli di amministrazione dei quotidiani “La Notte” di Milano, “Il Giornale d’Italia”, “Il Giornale del Popolo” di Bergamo e “Il Messaggero Veneto” di Udine, erano inseriti componenti che prendevano ordini da lui e dettavano la linea a questi giornali, a tutela dei privilegi del finanziatore e per esercitare pressioni sul governo. Una tale miriade di proprietà e partecipazioni, assicuravano all’ingegner Pesenti, mediante i pacchetti azionari posseduti in proprio, e quelli controllati per mezzo del cognato Radici, il completo dominio sul suo impero. Evidentemente, però, le molteplici attività non dovevano procurargli adeguati emolumenti se consideriamo che il Cavaliere del Lavoro bergamasco, uomo dal basso profilo, nell’anno 1958 presentò una modesta dichiarazione dei redditi, denunciando un imponibile di appena 30 milioni e 500 mila lire, e per gli anni precedenti e quelli che seguirono le cifre dichiarate non si discostarono di molto da una tale somma. Intanto, il capitale della Italcementi, che nel 1938 era di 147 milioni di Lire, alla fine del 1957 divenne di 12 miliardi. Ma più che l’aumento nominale del capitale sociale è doveroso evidenziare l’aumento del suo valore di mercato che risulta moltiplicando il prezzo di Borsa per il numero delle azioni collocate. Alla fine del 1938 il capitale sociale della Italcementi aveva un valore nominale di 147 milioni, ma un valore di Borsa di 340 milioni (cioè poco più del doppio del valore nominale), nel 1957, con un capitale sociale di 12 miliardi, il valore di Borsa saliva a 83 miliardi e 350 milioni (sette volte più alto del valore nominale). Ancora più significativo l’aumento dell’indice di capitalizzazione nel corso dell’ultimo decennio (anni Cinquanta). L’indice venne calcolato da Mediobanca in 9,26, alquanto superiore all’indice medio generale (5,37) e ragguardevole anche se confrontato con quelli degli altri gruppi monopolistici con azioni quotate in Borsa: 7,37 per la Edison, 6,83 per la FIAT, 6,55 per la Eridania, 6,25 per la Pirelli, 4,12 per la Montecatini.
I cospicui e fulminei guadagni realizzati a quei
tempi dagli speculatori al rialzo dei titoli di Borsa, provocarono, nondimeno, un aumento degli squilibri sociali, poiché gli affaristi non solo ottenevano rilevanti utili lucrando quando il titolo saliva, ma pure attraverso un’inversione del movimento, e cioè con quotazioni al ribasso, conseguivano lauti proventi, a spese, però, di chi finiva nella rete. L’indice generale delle quotazioni azionarie di Borsa, che era di 4.257 nel dicembre del 1957, giunse a 8.064 alla fine del 1959. Durante il 1958 si investì nelle azioni denaro fresco per 310 miliardi e il valore capitale delle società quotate, in base a i prezzi di compenso, salì da 3.126 a 3.824 miliardi; e nell’arco dell’anno 1959 (mentre si investì nelle azioni denaro fresco per soli 514 miliardi) il valore capitale delle società balzò da 3.824 a 6.531 miliardi. La differenza di 2.471 miliardi formava l’utile degli ultimi due anni. Nei nove mesi successivi la crescita dei valori capitali si dimostrò ancor più eccezionale. Il valore della totalità delle azioni quotate nelle Borse italiane passò da 6.525 miliardi nel dicembre 1959 a 10.407 miliardi nel settembre 1960, e giacché il denaro fresco investito in azioni nel 1959 ammontava a 886 miliardi, i “facili guadagni” di Borsa in Italia si aggirarono – secondo una Nota del gennaio 1961 – nei soli primi nove mesi del 1960, intorno ai 3.000 miliardi.
La vicenda della Liquigas, attiva nel ramo del gas liquefatto, consente di comprendere al meglio quanto sopra documentato. Dal 1938 al 1960 la società, quotata in Borsa, aumentò il capitale sociale di 600 volte, portandolo, con quindici variazioni, da 10 milioni a 6 miliardi di lire.
Sotto la presidenza del senatore democristiano Teresio Guglielmone – accaparratore di ingenti contributi statali dirottati anche in altre iniziative – in accordo con le altre aziende del settore, la Liquigas riuscì a dominare il mercato, tenendo i prezzi del gas, ricavato dai sottoprodotti delle lavorazioni del petrolio, a buoni
livelli, e imponendo ai suoi clienti di versare anche un oneroso deposito cauzionale a garanzia di ogni bombola distribuita, per un importo assai superiore al costo del recipiente stesso. Il 31 dicembre del 1952 la società di Guglielmone segnava in bilancio cauzioni per 6 miliardi e 682 milioni, sui quali non pagava interessi all’utenza. Ma con l’avvento sul mercato, nel 1954, dell’Agipgas – gruppo ENI – che iniziò ad applicare una politica di prezzi più contenuti, senza richiedere alcun deposito per le bombole, la Liquigas si vide costretta a ridurre del 12% i prezzi e a restituire le somme detenute a titolo cauzionale. Ciononostante, Guglielmone non resse la concorrenza dell’ENI e cedette il pacchetto di controllo della società a Michelangelo Virgillito, imprenditore di origini siciliane. Ma chi era Virgillito? Nato a Paternò, in provincia di Catania, al principio del secolo scorso, e trasferitosi a Milano nel 1926 per lavorare come muratore, venne dichiarato fallito dal Tribunale di Milano il 3 gennaio 1928, e condannato il 28 giugno 1929 dalla Corte di Appello del capoluogo lombardo a un anno, nove mesi e quindici giorni di reclusione per appropriazione indebita, truffa e bancarotta semplice. Semi analfabeta e nullatenente, è accertato che, alla fine della Seconda guerra mondiale, a Milano, fosse già proprietario dei cinema “Susa” e “Ariston”, dell’albergo “Ambasciatori”, di una buona parte della Galleria del Corso, situata nel centro della città, e di molti altri beni mobili e immobili. Divenuto inspiegabilmente ricchissimo nel giro di un solo ventennio, nella sua mirabolante carriera fu validamente sostenuto prima dal cardinale Schuster e poi dal cardinale Montini, e affiancato nelle varie operazioni dal suo avvocato d’affari, Antonino La Russa, nativo pure di Paternò, che si fregiava del titolo di onorevole in quanto nella seconda legislatura, nelle file del MSI, fu proclamato deputato come primo dei non eletti in sostituzione di un collega, senza però partecipare mai ai lavori della Camera, dato che il Parlamento venne sciolto quattro giorni dopo. La Russa, nell’impero creato da Virgillito, rivestiva le cariche di vicepresidente della Liquigas e della Liquigholding e successivamente oltre a ciò di vicepresidente e amministratore delegato della Lanerossi. Alla presidenza della società venne insediato l’avvocato Michelangelo Virgillito, il quale portava nome e cognome del finanziere ed era non solo omonimo ma anche suo cugino, aveva press’a poco la sua età e serviva soltanto da “controfigura” non potendo, a causa dei suoi precedenti penali, il proprietario effettivo comparire in prima persona nei consigli di amministrazione.
Nel maggio del 1958 la Liquigas costituì a Lugano la Holding Gasliq, con capitale di 2 milioni di franchi svizzeri, consueto paravento elvetico con cui le grandi società italiane erano solite camuffare, agli effetti fiscali, le loro operazioni. Nello stesso anno Virgillito rastrellò tutte le azioni della
Raffineria Nilo, e la Liquigas divenne così proprietaria di una raffineria alle porte di Milano. Poco dopo la Nilo aumentò da uno a due miliardi il capitale sociale e le azioni, per questo importo, vennero iscritte in bilancio. Ma nell’ultima assemblea del 1959, gli azionisti appresero dai vertici dell’azienda che la Raffineria Nilo era stata ceduta per 2 miliardi e 356 milioni. Per rendere la Liquigas uno strumento ancora più adeguato ad attività puramente speculative, nel maggio del 1959 i suoi amministratori fecero approvare dall’assemblea una modificazione sostanziale dello statuto, per cui oltre al vecchio oggetto sociale, che attribuiva alla Liquigas compiti prettamente industriali, venne aggiunto il nuovo articolo 3 che disponeva per la società: “l’assunzione di interessenze e partecipazioni in altre imprese, nonché investimenti mobiliari ed immobiliari, sia direttamente che indirettamente”. E l’ultimo comma dello stesso articolo precisava che l’azienda poteva compiere tutte le operazioni commerciali, industriali e finanziarie, mobiliari e immobiliari, ritenute utili dal consiglio per il conseguimento dello scopo sociale. D’altra parte Virgillito aveva già dimostrato come intendeva operare. Negli anni 1955 e 1956, infatti, la Liquigas non distribuì alcun dividendo agli azionisti, e nel 1957 solo 20 lire per ogni azione posseduta, gli amministratori, però, autorizzati dall’assemblea generale, al 31 dicembre 1959 comprarono 2.432.947 di azioni sociali, per Lire 1.390.247.000, provenienti dalla riserva straordinaria e frutto di utili relativi agli esercizi degli anni antecedenti – 1955-1956 – per i quali i piccoli azionisti non avevano percepito alcunché, pur essendo terminati questi anni in attivo. E si può sospettare che questo disegno venne concepito probabilmente con lo scopo di far diminuire il valore delle azioni Liquigas prima di ricomprarle. L’assemblea del 29 maggio 1958, oltre a includere l’articolo 3 nel nuovo statuto, e abbiamo visto con quali motivazioni le modifiche vennero apportate, approvò la proposta di un prestito obbligazionario per 6 miliardi di Lire, che fu emesso nell’ottobre di quell’anno. Dal bilancio presentato per la gestione del 1958, però, risultò che i 6 miliardi, invece di essere investiti nell’ammodernamento degli impianti e nella costruzione di nuovi stabilimenti, per i quali il Comitato Interministeriale per il Credito aveva concesso la circolazione delle obbligazioni, furono tutti destinati a speculazioni di Borsa. La voce “partecipazioni” passò così dai 27 milioni di Lire del 1954 a ben 9 miliardi e 230 milioni del 1959. La relazione della Liquigas per il 1958 espose un vasto piano di sviluppo degli impianti che giustificava il ricorso alle obbligazioni, per una somma uguale al capitale sociale, e il prestito venne debitamente approvato dal ministero in base al programma esaminato, e non certo per consentire a Virgillito di acquistare azioni della Assicuratrice Italiana (società affiliata alla RAS) per 4 miliardi e 510 milioni di Lire, come poi avvenne.
Il sistema bancario procurò a Virgillito notevoli finanziamenti per le sue “scalate” in Borsa. Il Banco Ambrosiano e altri istituti vicini alla Curia milanese agevolarono in tutti i modi l’attività del finanziere. Prestiti furono erogati dall’Istituto Centrale delle Banche Popolari, dall’Italcasse, ente di diritto pubblico, sorto col compito di coordinare l’azione delle Casse di Risparmio nei loro reciproci rapporti, e che fra i suoi obiettivi non aveva di certo quello di finanziare le speculazioni borsistiche. E la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (Cariplo) partecipò per il 40% all’operazione condotta da Virgillito per rilevare azioni dell’Assicuratrice Italiana. Presidente della Cariplo era il prof. Giordano Dell’Amore, il quale figurava anche come consigliere sia nell’Italcasse sia nella Assicuratrice Italiana oggetto della tentata, e non riuscita, “scalata”. E consultando il bollettino n. 129 (29 ottobre 1959)
pubblicato dall’Agenzia Economica Finanziaria emerge che Dell’Amore era presidente pure dell’Italwarren, società costituita su basi paritetiche, il 26 agosto 1959, dalla Liquigas e dalla Warren Petroleum International Co., appartenente al gruppo Gulf Oil di Pittsburg. Il professore recitava, dunque, più parti nella stessa commedia, ma del resto a quei tempi esercitava alte funzioni nei consigli di numerosi istituti di credito – era fra l’altro presidente della Banca Immobiliare italiana – in società industriali private e del gruppo IRI. Nel 1960 Dell’Amore concesse ulteriori finanziamenti a Virgillito per permettergli di entrare in possesso della maggioranza azionaria della Lanerossi di Vicenza.
E della maggiore e più antica industria laniera italiana, il prof. Dell’Amore era perfettamente a conoscenza di ogni minimo particolare, poiché nel 1955 aveva ricoperto la carica di presidente, e inoltre, per sottolineare un altro conflitto d’interessi, la Cariplo era una forte creditrice
della società vicentina, che negli ultimi quattro esercizi aveva aumentato i debiti bancari a breve termine di ben 7 miliardi e 711 milioni, vale a dire di una somma più che due volte e mezzo superiore al capitale sociale.
Un’altra società protagonista dei “giochi” borsistici in quella temperie era la Edison, attiva nell’elettricità. Presieduta dall’ingegner Pietro Ferrerio, aveva come consigliere delegato l’ingegner Giorgio Valerio. I due, nel 1944, anticiparono 50 milioni di Lire ai partigiani, prelevandoli dalle casse dell’azienda. La somma proveniva dai servizi segreti inglesi per finanziare il movimento resistenziale. Essendo impraticabile il trasferimento di denaro con l’utilizzo dei corrieri clandestini, venne coinvolta la filiale ginevrina di una banca britannica, la Lloyds & National Provincial Foreign Bank. L’istituto di credito ricevette istruzioni in merito da Londra, rilasciando una lettera di garanzia riguardante i 50 milioni versati dal SOE inglese. Il documento,
in favore dell’ing. Valerio della Edison, impegnava la banca ad accreditare a Valerio la somma di denaro alla cessazione delle ostilità. Ricevuto il prezioso attestato, l’ingegner Valerio, a quel tempo direttore generale, lo consegnò al presidente Ferrerio, il quale provvide a fornire i 50 milioni all’emissario del CLNAI. Entrambi nel dopoguerra si trovavano ancora a condurre la Edison, e Valerio, nella sua qualità di consigliere delegato, il 10 marzo 1960 inviò una riservata personale agli azionisti delle società del suo gruppo (Edison, Edisonvolta, Italpi, Orobia, Cieli, OEG, Bresciana, Dinamo, Emiliana, Subalpina) per invitarli ad affidare alle società stesse la custodia e l’amministrazione dei loro titoli azionari. Il servizio sarebbe stato completamente gratuito, e agli azionisti non sarebbero state addebitate neppure le spese postali. Sul bollettino del 12 luglio 1960, l’Agenzia Economica Finanziaria mise in risalto che il servizio comprendeva anche l’intervento e la rappresentanza nelle assemblee.
Affidata, dunque, l’amministrazione dei propri titoli alle società del gruppo Edison, il diritto di voto veniva esercitato da un altro azionista, designato dal presidente del collegio sindacale o da un sindaco.
In tal modo, all’azionista che intendeva usufruire delle prestazioni gratuite gentilmente offerte dalla società, veniva sottratta la possibilità di far sentire la propria voce in assemblea, mentre le aziende del Gruppo, attraverso rappresentanti “scelti”, si precostituivano e rafforzavano in comode maggioranze. La Edison aveva allora 34.000 azionisti, ma nessuna persona fisica arrivava a possedere l’1% del capitale sociale. E alla domanda, posta all’ing. Ferrerio dalla commissione economica del ministero per la Costituente, tesa a conoscere se i soci intervenivano direttamente alle assemblee, Ferrerio rispose che solo 500 o al massimo 600 azionisti prendevano parte ai consessi annuali.
Un altro caso può illustrare con quanta disinvoltura
veniva amministrata la Edison. Recatosi nel 1947 negli USA per sistemare i debiti contratti prima della guerra, l’ing. Valerio approfittò della sua permanenza in quel Paese per acquistare 6.543.000 dollari di obbligazioni della società finanziaria che aveva fatto da intermediaria fra i risparmiatori americani e la sua società, obbligazioni cadute quasi a zero dopo lo scoppio della guerra, per l’interruzione del servizio dei prestiti esteri.
L’acquisto venne fatto nella sicura previsione che quelle obbligazioni sarebbero state rivalutate dall’estinzione dei debiti italiani. Le parecchie centinaia di milioni guadagnate con questa speculazione – che l’ing. Giorgio Valerio poté compiere perché ricopriva la carica di amministratore delegato della società – non andarono nelle tasche degli azionisti della Edison, ma finirono nelle mani di un misterioso gruppo svizzero, di cui Valerio stesso rappresentava gli interessi.
È doveroso non tralasciare, trattando di speculazioni avvenute in
Borsa nei primi decenni del dopoguerra, un personaggio di primo piano dell’industria e della finanza italiane qual era Alberto Pirelli. Fascista convinto durante il vituperato Ventennio, e ben introdotto poi nell’ambiente partitocratico dell’Italia di quegli anni. Alla testa del gruppo da lui diretto si trovava la società Pirelli & C. (capitale 6 miliardi, valutata in Borsa, al 30 giugno 1960, 61 miliardi e 584 milioni), che oltre a servire, come tutte le finanziarie, a “scopi fiscali”, costituiva il più valido strumento per tenere saldamente in pugno tutte le società controllate. La Pirelli & C. aveva la singolare caratteristica di essere una società in accomandita, le cui azioni erano quotate in Borsa. Fra tutte le 175 società presenti nelle nostre Borse, soltanto la Pirelli & C. aveva questa ibrida struttura, che non permetteva agli azionisti neppure il diritto formale di licenziare e sostituire gli amministratori: la direzione era riservata ai membri della famiglia Pirelli accomandatari (vale a dire illimitatamente responsabili). Dal 1922 al 1957 amministratori furono i fratelli Alberto e Piero; morto Piero, lo statuto venne modificato per affidare l’amministrazione, oltre che al dottor Alberto, a suo figlio, l’ingegner Leopoldo. La società capogruppo, Pirelli S.p.A., aveva un capitale sociale di 30 miliardi, ma al 30 giugno 1960 era valutata in Borsa 266 miliardi. La Pirelli S.p.A. occupava direttamente 20 mila dipendenti in 18 stabilimenti e produceva pneumatici, cavi e conduttori elettrici, prodotti vari per applicazioni tecniche, articoli per uso sanitario, tessuti impermeabili, articoli per arredamento. Ma ecco come procedevano i gestori per espropriare delle loro azioni i pesci piccoli. L’assemblea straordinaria della Pirelli & C. del 23 marzo 1959 deliberò di aumentare il capitale sociale da 2 miliardi e 640 milioni di Lire a 6 miliardi: a) per 2 miliardi e 310 milioni gratuitamente, mediante aumento del valore nominale di ognuna delle 6.600.000 sue azioni da Lire 400 a Lire 750 usando le riserve; b) per Lire 126.922.500 a pagamento, con emissione alla pari di n. 169.230 azioni, la cui sottoscrizione venne riservata in opzione agli amministratori; c) per altre Lire 923.077.500 a pagamento con emissione alla pari di 1.230.770 azioni, riservate in opzione agli azionisti in ragione di 9 azioni nuove per ogni 50 azioni possedute. In conseguenza della riserva del diritto di opzione agli amministratori, e cioè ai Pirelli, disposta alla lettera b), tutti i soci non accomandatari vennero spogliati di una parte del loro patrimonio sociale, in favore dei due Pirelli, padre e figlio, cedendo la differenza fra il valore nominale (Lire 750) delle 169.230 azioni e il loro reale valore di Borsa, per una perdita complessiva ampiamente superiore al miliardo. Un’analoga azione sui diritti di opzione venne effettuata, con un nocumento di pari entità, sempre nel 1959, dall’avvocato Luigi Bruno, presidente della società finanziaria La Centrale – l’avv. Bruno rivestiva anche cariche sociali in altre 35 società nelle quali i Pirelli possedevano pacchetti azionari – a danno degli azionisti delle società Romana di Elettricità e SELT-Valdarno.
Quindi, le trame dei magnati della finanza si concludevano immancabilmente, come abbiamo visto, con un loro arricchimento e con truffe a scapito dei piccoli azionisti. E da questi capitani d’industria e maghi della finanza, e dai loro “giochi” di Borsa, prese le mosse negli anni ‘60 l’effimero miracolo economico italiano.Gianfranco La Vizzera