Ma loro non si tagliano mai
 











Anche sui letamai talvolta nascono fiori. Dalla vicenda delle scandalose spese delle Regioni, per esempio, sta spuntando un sussulto di ravvedimento che dovrebbe dare tagli significativi ai costi smodati della politica domestica. Sono stati gli stessi presidenti degli enti locali, infatti, a chiedere che si riduca di qualche centinaio di poltrone l’esorbitante numero dei circa 1.100 consiglieri regionali attuali. I cosiddetti governatori avrebbero fatto miglior figura se si fossero dati una mossa prima che montasse la furiosa ondata di sdegno popolare. Resta il fatto positivo che a breve – dato che s’intende procedere per decreto-legge – una discreta sforbiciata dovrebbe cadere su almeno un versante della inutilmente pletorica rappresentanza politica a livello locale.
IL PAESE RISCHIA, però, di assistere a uno spettacolo davvero paradossale. Quello di deputati e senatori pronti a convertire in legge il provvedimento che taglia il numero delle
poltrone regionali senza aver fatto nulla per quanto riguarda la riduzione delle rispettive e non meno sovrabbondanti assemblee. Impegno che da anni viene proclamato da ogni parte politica come passo indispensabile sia per rendere più funzionale il lavoro di Camera e Senato sia per offrire un responsabile contributo al contenimento della spesa pubblica. Ma anche impegno che poi risulta sistematicamente disatteso in un turbinio di astuzie tattiche e di alibi procedurali il cui fine inconfessato è di tenere la questione su un binario morto.
La prova di queste cattive intenzioni è data da quanto accaduto nel corso dell’ultimo tentativo di far pronunciare il Parlamento in materia. Vero è che, prima della pausa estiva, il Senato ha votato una modesta riduzione dei membri della Camera dagli attuali 630 a 500. Ma è altrettanto vero che questa ipotesi è inserita in un disegno di legge di riforma costituzionale che prospetta addirittura il passaggio a una repubblica semi-presidenziale.
Cosicché proponendo un tanto radicale stravolgimento dell’attuale sistema politico mai si potrà raggiungere in questo Parlamento la maggioranza qualificata di voti necessaria per rendere esecutiva la modifica. A inventarsi la furbata di porre il taglio dei parlamentari sotto il cappello impraticabile del semipresidenzialismo sono stati i senatori della vecchia maggioranza Pdl-Lega. E non si racconti la balla che si sia trattato di un errore in buona fede. In materia leghisti e berlusconiani sono recidivi avendo già messo in scena in passato un’identica farsa con un’altra analoga riforma che, unendo la riduzione dei parlamentari a indigeribili modifiche radicali del sistema politico, ha subìto un inevitabile rigetto nel referendum popolare.
DATI SIMILI PRECEDENTI, oggi sarebbe indecoroso agli occhi del paese che il Parlamento votasse la sforbiciata dei consigli regionali, ma non quella delle proprie assemblee. Anche perché questa riduzione darebbe un contributo importante alla
"spending review" del bilancio pubblico in quanto un numero minore di parlamentari produrrebbe a cascata anche importanti risparmi in termini di spesa per assistenti, personale strapagato delle Camere nonché per affitti di immobili non più necessari. In breve arco di anni: miliardi, non milioni. Certo ora siamo al mese di ottobre e il tempo stringe perché, essendo materia costituzionale, il taglio dei parlamentari richiede un doppio voto di entrambe le Camere a distanza di 90 giorni l’uno dall’altro. Ma sol che lo si voglia la soluzione del problema è praticabile prima della fine della legislatura. Si tratta di stralciare il tema da altre e del tutto pretestuose ambizioni di riforma del sistema costituzionale per operare un primo voto a Montecitorio e Palazzo Madama entro ottobre in modo da chiudere la partita a gennaio. La riduzione dei parlamentari è la prima e più utile delle riforme elettorali anche al fine di scongiurare la temuta ingovernabilità da frammentazione della rappresentanza politica. Una parola autorevole del Quirinale non guasterebbe.  Massimo Riva-l’espresso