|
Come quasi sempre accade, in questi tempi di confusione delle lingue, che richiamano al mito biblico della torre di Babele, non è possibile attingere a un minimo di chiarezza espressiva, senza prima fare i conti con lo sciatto lessico invalso, al servizio del “pensiero unico”. Colonialismo, ad esempio, è una parola con cui si vorrebbero descrivere concetti affini, ma assai diversi come forma mentis e come effetti, sia sui colonizzatori che sui colonizzati. C’è stato infatti, prima che la famosa Liberazione abolisse la libertà dei popoli, un “colonialismo di sfruttamento”, nel quale un popolo, acquistando la dominanza su un altro, per motivi vari ma prevalentemente militari, si preoccupava soltanto di assicurarsi il controllo di una risorsa naturale propria del secondo, incrementandone il ritmo di fruizione e il relativo lucro, ma disinteressandosi del tutto o quasi della popolazione aborigena, alla quale veniva concessa la sopravvivenza di usi, istituzioni, e persino gerarchie tradizionali. Come esempi, si possono citare il colonialismo belga, quello olandese, o quello tedesco ante-Sarayevo. C’è stato poi il “colonialismo di possesso”, con pretesa del colonizzatore di appropriarsi non solo delle risorse del territorio colonizzato, ma anche delle valenze lavorative, intellettuali e finanche militari del popolo colonizzato, anche lontano dai confini della colonia. Sarà agevole il riconoscervi il colonialismo britannico, che infatti fu applicato sia a comunità tribali e semi-selvagge, come a popoli di civiltà e cultura molto più antica e raffinata di quella dei nuovi dominatori. Un terzo colonialismo, potremmo definirlo “d’integrazione”. in cui dominanti e dominatori procedevano gradualmente verso l’unificazione di colonizzatori e colonizzati a formare un tutto unico, con un’unica bandiera. Tale fu il colonialismo portoghese, e soprattutto quello italiano-fascista. Qualcuno, abituato a fermarsi alla superficie e all’apparenza, potrebbe scandalizzarsi davanti al nostro criterio di classificazione. Ma come? Se il pensiero e la prassi mussoliniane furono sempre chiaramente schierate, anche con leggi, contro il mescolamento razziale! Se anche i fascisti di oggi, una delle poche cose su cui sono unanimi è l’avversione profonda contro la società multirazziale! La spiegazione è perfettamente coerente, e vale anche a dissipare certi equivoci, che sono il pane quotidiano di popolazioni rozze e sottosviluppate mentalmente come i mescolatissimi statunitensi. E’ che unificazione e mescolamento genetico, secondo la nostra irrinunciabile concezione, non sono affini: sono antitetiche. Se la migliore integrazione tra due popoli è quella in cui ciascuno apporta il contributo del proprio carattere, della propria formazione, delle proprie virtù, presupposto indispensabile è che le conservi: non che le perda. E il miscuglio genetico porta a perderle. Non si può fare la media tra due civiltà portate a convivere. O si integrano, ciascuna com’è, o si combattono finché l’una non sopraffa’ l’altra. Del resto, anche la nostra personale esperienza di vita ci indica chiaramente che le unioni meglio assortite, per esempio coniugali, o imprenditoriali, non sono quelle fra simili, ma fra complementari, in cui la prudenza dell’uno corregge l’avventurosità dell’altro, o la calma dell’uno la tendenza dell’altro a farsi dominare dagli impulsi, o la parsimonia dell’uno la prodigalità dell’altro. Altrettanto c’insegnano, proprio per le caratteristiche innate aventi carattere razziale, i nostri precedenti coloniali. E interessante notare come, dei nostri “partners” africani, quello che per noi fu sempre il più fidato e fedele, che non ci creò mai problemi, neppure nelle più gravi crisi della potenza italiana nel continente nero, che considerò senza riserve il tricolore come la sua bandiera, che fu capace di difendere fino al più sublime eroismo, fu quello razzialmente più lontano da noi: il popolo eritreo. E la sua non fu mai una forma di servilismo o di tradimento della propria natura, come dimostrò ampiamente a tutto il mondo, dopo l’ammainamento in Africa Orientale di quella bandiera, la fierezza e il valore con cui seppe resistere alla tracotanza del gigante etiopico, a lui razzialmente certo più affine del nostro. Dopo l’opportuna premessa che abbiamo voluto anteporre, veniamo finalmente a rispondere alla domanda contenuta nel titolo. Ma il tanto vilipeso colonialismo è veramente finito? Secondo il “pensiero unico” che, in nome del libero pensiero, venne propinato in guisa di supposta alle genti, per realizzarne la succube sopportazione in base al motto “scemi di tutto il mondo, unitevi !”, non c’è problema. Per quello, non c’è mai problema: è tutto contenuto nella confezione. Le cose starebbero così. Col vento di libertà, di uguaglianza e di dignità umana soffiante possente da oltre Atlantico (è un “destino manifesto”, mica si scherza! Quasi come quello del Popolo Autoeletto), l’obbrobrio del colonialismo non poteva sussistere. E infatti, le stesse nazioni grandi colonialiste, anche se alleate degli “alleati per definizione”, dovettero sottrarsi alla unanime deplorazione restituendo alle colonie l’agognata libertà. E vissero tutti felici e contenti, inviando rappresentanti alle Nazioni Unite, con tanto di marsina e di scarpe con lo scrocchio, fossero la Cina o il Burundi, pari a pari. Come tutto ciò che la Liberazione del ‘45 ha apportato al mondo, si tratta di una bufala, con l’aggravante della malafede. E intendiamo dimostrarlo in modo inoppugnabile. Il colonialismo, invero, non solo non è cessato, ma si è diffuso ed aggravato in modo non più tollerabile. L’unica novità è stata che l’Europa ex-colonizzatrice è diventata, lei, una colonia. Colonia in senso proprio: non polemico o metaforico. Facciamo l’accurata verifica: Che cosa, in passato, distingueva la nazione colonizzatrice da quella colonizzata ? 1) Che la prima possedeva una sovranità: la seconda no. 2) Che la prima poteva disporre del territorio della seconda per i propri fini. 3) Che la prima aveva una propria politica estera, mentre la seconda era solo uno strumento dei rapporti internazionali dell’altra. 4) Che i militari della seconda erano tenuti a servire gli interessi della prima, e non della propria. 5) Che le residue gerarchie della seconda erano sottoposte al beneplacito della prima. 6) Che l’economia e la produzione della seconda erano programmate e finalizzate solo all’interesse della prima e della sua imprenditoria. Ebbene, che c’è di diverso, andando alla sostanza, nei rapporti tra le nazioni europee “liberate” e la loro liberatrice? Una cosa sola c’è, di diverso: che il nuovo colonizzatore, a ben vedere, non è neppure una nazione. E’ un’oscura setta apolide, che si serve come “braccio secolare” di un soggetto ibrido dall’anime equivoca ma dall’inequivoco arsenale distruttivo, di nome U,S.A.. Ma era questo davvero inevitabile ? Non esisteva davvero per il colonialismo un percorso evolutivo, anziché involutivo ? Noi siamo convinti di si. Ed era proprio quello che abbiamo definito “d’integrazione”; quello italiano e fascista. Quello che portò gli Africani tutti a distinguerlo nettamente da tutti gli altri dominii “bianchi”, ancor mezzo secolo dopo che era stato cancellato, perché aveva curato l’armonia e il benessere dei locali come dei metropolitani, e perché erano stati il lavoro, l’ingegno e la bonomia innata della nostra gente a beneficare gli Africani, ben più di quanto i secondi fossero stati “utilizzati” dalla prima. E questo sia in Libia, dove la differenza razziale dagli Italiani era praticamente inesistente (chi scrive, nato a Roma ma figlio di una siciliana, ha una rilevante componente del più puro sangue arabo, e se ne vanta), sia in A.O.I., dove il legame di sangue con noi non esisteva. L’estensione di ettari fertili che il lavoro e la tecnica italiane riuscirono a strappare al deserto, fu assegnata a coloni italiani e libici a condizioni pari, e si giunse in pochi anni alla concessione ai libici della cittadinanza italiana. Nel 1941, l’Italia, in Libia, era amata. Parlo sempre per scienza diretta. Nelle ricerche che ho dovuto compiere per una grossa opera storica sui Carabinieri, commessami dal C.E.N., e per la quale il compianto gen. Arnera mi assicurò l’,accesso agli archivi di Viale Romania , ebbi modo ivi di leggere numerose lettere (in corretto italiano) scritte al Comando generale da ex Sciumbasci e Bulucbasci (sottufficiali) degli Zaptiè (i carabinieri libici), alcuni dei quali chiamati a cariche di rispetto nella Libia “liberata”. Vorrei davvero che tutti gli italiani d’oggi nutrissero per l’Italia la devozione e il rimpianto che mi commosse leggendole. Gheddafi pretese dagli Italiani il risarcimento per i danni recati alla Libia, e con quella scusa rapinare di ogni avere, fino alle medagliette della comunione, tutti i nostri connazionali, persino se trasferitisi in Libia dopo l’indipendenza della stessa, e scacciarli come delinquenti. L’atroce destino che lo ha colpito in fondo è il contrappasso per essersi fidato di altre “amicizie” altre, anziché l’unica giustificata per un libico: quella col popolo italiano. Ebbene, noi pensiamo che la crisi di tutta l’ignobile baracca speculativa che ha infestato il mondo abbia riaperto tutte le possibilità. Anche quella. Senza il “rombo del cannon” del 1911. Senza sbarchi di marinai con baionette in canna, s’intende Con la penetrazione pacifica , ma non meno sistematica e programmata, del lavoro e dell’ingegno. “Hinc inde”, dicevano i Romani, certo. Anche un matrimonio, può cominciare con un ratto o con un lancio di riso, ma che diventi o meno unione non dipende da quello. Dipende dalla volontà degli sposi. Perchè non mettercela, quella volontà, popoli d’Italia e di Libia? Cominciate a pensarci voi, perché i vostri pseudo-governi coloniali non lo faranno mai. Non ne hanno né l’apertura mentale né il permesso dei superiori. Anzi, i primi nemici da togliersi dai piedi saranno proprio quelle bande d’idioti e di ladri. - Che l’inse? - Gridò Balilla. Chi lo griderà? Rutilio Sermonti |
|
|