Hanno inventato un nuovo “purgatorio… Quel “debito pubblico” che è colpa di tutti
 











La crisi? Algoritmi finanziari, derivati, mutui subprime, JP Morgan, la Goldman&Sachs, le agenzie di rating, la politica monetaria, le banche mondiali… loro non centrano. La colpa è la nostra.
Da qualche anno l’informazione autorevole e colta, ma anche quella frivola e salottiera, con toni a volti algidi altri propagandistici, oltre a far passare con insistenza e in modo scontato il messaggio dell’enorme debito pubblico responsabile della crisi, concorre costantemente alla costruzione psicologica della sua accettazione.
Una bizzarra affermazione ripetuta da più parti ha finito per essere una certezza: “Siamo vissuti al disopra delle nostre possibilità”.
La cosa è effettivamente stravagante se consideriamo che in Italia il debito privato, quello contratto dalle famiglie per intenderci, era uno dei più bassi al mondo. La nostra cultura del risparmio, un po’ contadina, un po’ cattolica-micragnosa, aveva sempre portato l’italiano medio a
non fare mai il passo più lungo della gamba. Accontentarsi o aspettare.
Non a caso questa solidità famigliare italica ha interessato istituti bancari vedendo in ciò un verde pascolo dove far pascere il proprio bestiame.
L’affermazione: “Siamo vissuti al disopra delle nostre possibilità”, non trova appiglio concreto. Almeno che non si voglia mettere in dubbio il sistema fondato sul consumo (consumismo), ma dati i tempi non è certo questa l’intenzione dell’asserzione di cui sopra, perché questo richiederebbe una saggia rivisitazione del concetto di benessere, con un’appropriata riqualificazione di questo termine, e ciò ci porterebbe assai velocemente lontano dal credo capitalistico.
Si dovrebbe allora ricordare che i nostri genitori, i nostri nonni, vissuti di onesto, concreto lavoro, tanto sudore e poche banche, riuscirono, anche se con grandi sacrifici, a sfamare la famiglia, dando una educazione e un’istruzione alla numerosa prole, e spesso persino a costruirsi, comprarsi,
una casa di cui ne avevano la proprietà senza un secolare mutuo.
Ed allora, è stato forse questo “vivere al disopra delle nostre possibilità”?
Se non vogliamo ledere la cultura dell’effimero capitalistico, sembrerebbe proprio di sì, è stata veramente questa la nostra colpa: quella di emanciparci appena al di sopra della linea della schiavitù e dello sfruttamento più becero. Se per qualcuno questa conclusione è una sconfitta, per altri, gli ortodossi dell’economia classica, è finalmente una vittoria, un disegno già scritto e finora ostacolato dai soli illiberali, ingenerosi negatori del paradiso chiamato mercato.
E’ questa l’affermazione della “Legge bronzea” dei salari di David Ricardo, che come ci ricordava J.K. Galbraith in “Storia dell’economia”: “Stabiliva che coloro che vivevano del loro lavoro dovevano rimanere poveri e che nulla e nessuno li avrebbe riscattati dalla loro povertà, né lo Stato o un datore di lavoro compassionevole, né i sindacati o qualsiasi azione
intraprendessero”.
A questo un altro economista del tempo, l’inglese Thomas Robert Malthus, si scagliava contro “la carità, pubblica e privata, che aiutava i diseredati”, aggiungendo che era comunque inutile alzare il tenore di vita del popolo lavoratore, in quanto di risposta, l’incontrollato istinto riproduttivo lo avrebbe portato a fare più figli e quindi con molta più manodopera a disposizione i salari si sarebbero riabbassati di conseguenza, facendoli tornare al punto di partenza, quindi in condizione di povertà.
L’uomo post-moderno, pur non conoscendo l’imbarazzante sentenza di Malthus, spinto dal gaudente, individualistico, consumismo ha imparato a fare anche meno figli. Ma questo, nonostante tutto, data la crisi, sembra non essere più sufficiente.
Le asserzioni che in passato hanno sollevato generazioni di lavoratori in Europa, sono oggi sbandierate e praticate avendo ottenuto una castrazione sociale. Avendo tra l’altro prodotto la conclusione che la dove si era
tentato la costruzione anche legislativa di uno stato che guardasse al benessere di tutto il suo popolo, con provvedimenti sociali o addirittura socialisteggianti, lì si era avuto soltanto sperpero del denaro pubblico accompagnato dall’inevitabile debito.
Debito, quindi inevitabile crisi. Crisi che con eroico e impareggiabile altruismo i luminari della finanza stanno cercando di domare, dato il loro alto senso di responsabilità. Appare chiaro che per risolvere il groviglio che i vari “ostacolatori” del mercato hanno imbastito non si potrà che procedere lavorando in modo parallelo. Da una parte com’è ovvio che sia estinguendo il debito (iniziando a pagare gli interessi), dall’altra spazzando via quello stato spendaccione e così statalista, attraverso deregolamentazione, svendite così da liberare tutte le risorse (demansionamento dello Stato). Al resto penserà gratuitamente il mercato.
Le due strade intraprese, quella del debito e della ridefinizione dello stato (riforma
strutturale), lavorano nello stesso verso e convergendo hanno come naturale conseguenza la frammentazione sociale e l’abbattimento del sentimento comunitario. La destabilizzazione della comunità non è qualificabile come un effetto collaterale della duplice azione, ma piuttosto è una peculiarità che, per il disegno in atto, è irrinunciabile. Il suo raggiungimento coincide con la vittoria del disegno stesso.
Questa è alla radice della loro ossessione: distruggere la comunità sociale e politica a vantaggio di una libertà individuale venduta globalmente attraverso il pensiero dei “diritti umani”, diventati il casus belli adatto per ogni ingerenza.
Vediamo di capire da che cosa dipende questo loro successo.
Ancora una volta ci viene in aiuto Galbraith quando scrive: “Mentre in Europa la divisione tra privilegio e miseria era una divisione tra classi.
Negli Stati Uniti era una divisione tra individui: da una parte i ricchi e sicuri di sé, dall’altra la frangia degli straccioni.
Poteva esserci una soluzione darwiniana degli individui e un’eutanasia darwiniana della frangia degli straccioni, non di un’intera classe”.
Bisognerebbe tenerlo presente bene a mente quando si analizza il perché gli USA sono stati e sono la culla del capitalismo.
E’ per questa ragione e non per altre che stanno mirando alla disgregazione individualistica della società, solo così i bioriduttori sociali possono colpire asimmetricamente e assassinare singolarmente ciascuno di noi.
In una condizione di singole realtà separate e dissociate tutto è più semplice. Diventa facile qualunque processo d’estorsione, persino quello di richiedere un debito non dovuto e di prospettare uno spazio di sopravvivenza dove tutti i servizi, tutti, diventano a pagamento. Abbiamo vissuto al disopra delle nostre possibilità e la conseguenza economica logica, matematica, scientifica è stata quella di aver prodotto il debito, metabolizzare questo ha coinciso nel creare il fondamento del senso di colpa
pubblico.
Al debito pubblico, che poi si ripercuote in modo procapite attraverso l’aumento della pressione fiscale, dei mancati aumenti in busta paga, della “revisione della spesa” e così discorrendo, viene data una dignità materiale e allo stesso tempo divina, una consistenza condivisa e assoluta, di fronte alla quale singolarmente siamo chiamati a rispondere.
Ciascuno è costretto ad affrontare la propria condizione di sopravvivenza, di galleggiamento economico, ciascuno per conto proprio e quando qualcuno non ce la fa, padre di famiglia o piccolo imprenditore, si può toglie di mezzo senza chiedere niente a nessuno, in fondo per loro il bello della libertà individuale è anche questo.
Fluttuazioni della mente sconosciute fino a poco tempo fa affollano le notti: preoccupazioni, scadenze ed ipotesi d’espedienti. Tutto fino a saturare ogni spazio di pensiero differente, ne vale della nostra singola sopravvivenza, tutto il resto non conta. Uno contro l’altro, mors tua vita
mea.
Il debito riguarda tutti, ma questa estensione collettiva non crea unità, è come un’epidemia, una terribile malattia da cui ciascuno per sé deve imparare a difendersi.
Una forzatura innaturale dell’ente generico uomo, tale da riprogettare una totale rivisitazione della sua essenza, respingendo lo zoon-politikon a favore dell’uomo bio-ridotto.
Di questo passo la comunità fondata sulla condivisione etica non esisterà più. Si baratta la serenità sociale e pubblica a vantaggio di una vana sopravvivenza individuale rivestendo il solo ruolo di debitore.
La suprema accettazione del debito avvia ad una nuova fase storica, capace di stravolgere tutto, e dove tutto diventa suo marginale contorno.
Si può definire questo periodo un nodo della storia, paragonabile a quello da cui iniziò un’altra era, quella in cui l’interesse a prestito cessava di essere un’estorsione, il denaro non era più sterco del demonio, l’usura era tollerata e al mercato venivano aperte “le porte del
cielo”. Ma forse mai come oggi è minato il tessuto sociale dei popoli. Questo perché mai come oggi si è colpito la stabilità del singolo avendolo sprovvisto di un appoggio o di una rete sociale.
Si festeggia la motivazione economica del singolo così come asseriva Adamo Smith ricordando che quando ci rivolgiamo al macellaio, al fornaio “… non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo”. L’egoismo è il cardine del successo e della sopravvivenza, la molla dichiarata dell’individualismo.
Il mondo degli uomini ha subito una divisione bipolare, da una parte i capaci, stati o individui, in grado di dare certezze e sicurezza ai mercati: i buoni. Dall’altra, tutti gli altri, insolventi e irrimediabilmente dannati: i cattivi. Se ai primi spetta il Paradiso terrestre, agli altri l’Inferno.
Ora la variante degli ultimi anni è stata quella di aver introdotto, inventandolo, tra i due luoghi, un terzo: il Purgatorio. Questo “intermedio spazio” in giro di poco è diventato estremamente
affollato. Chi aspira alle beatitudini del Paradiso deve transitare nel luogo della purificazione, dove il tempo di permanenza dipenderà dal carico del peccato, il debito, e dalla capacità della sua estinzione.
Alla Chiesa di Roma l’introduzione del Purgatorio permise di avere una giurisdizione delle anime, cosa che prima era appannaggio esclusivo di Dio.
La pena dell’anima poteva essere alleviata attraverso i “suffragi” e le “indulgenze” e questo permise da un lato di avviare un fruttuoso commercio per la Chiesa, dall’altro di permettere il riscatto anche di quelli che in vita avevano prestato ad usura.
Ora la nuova religione del Mercato, quella che ha inventato il Purgatorio del debito, ottiene allo stesso modo un lauto mezzo d’arricchimento e controllo sugli uomini, con l’aggravante che per questa religione il paradiso agognato non arriverà mai, neanche dopo le indulgenze.
L’estinzione della pena non arriverà mai perché l’unica eternità è proprio nel debito. Da questo
Purgatorio non si esce, non ci si affranca mai, esso è sostanzialmente l’Inferno degli uomini. Tutto questo ovviamente è nell’ordine delle cose della politica monetaria delle grandi banche centrali che, avendo espropriato i popoli della loro moneta, possono prestare ciò che non è loro e che non ha valore, pretendendo anche gli interessi, certe del fatto che il dovuto dei debitori sarà sempre maggiore di quello ricevuto (tra l’altro carta straccia o una stringa binaria nella memoria di un computer).
Se l’altro nodo della storia aveva aperto le porte del cielo al mercato, quello attuale ha fatto diventare il mercato il nostro cielo, la nostra religione.
La religione professata dal mercato è però spietata e non conosce pietà, perché come le altre religioni ha la pretesa di possedere il verbo della verità, ma in più ha un’algida pretesa scientifica mancante a tutte le altre.
Ancora una volta ci viene in aiuto Galbraith quando scrive del “Caposaldo dell’ortodossia economica”:
“L’economia viene a considerarsi come una scienza, e come tale deve prendere le distanze da ciò che è giusto e ingiusto.
Il compito dell’economia è distaccarsi, ridurre tutto a formule matematiche e non già a giudizi morali”.
L’economista ha la pretesa di considerarsi uno scienziato del settore, alla stessa stregua del fisico o del biologo. Usa il metodo scientifico sperimentale, ove noi siamo il suo sperimento. Come scrive anche Costanzo Preve: “La scienza moderna mettendo fra parentesi il problema del Bene, in questo senso essa non soltanto corre il pericolo del relativismo, ma addirittura assume il relativismo morale come presupposto necessario ed indispensabile”. L’economia di mercato mette doppiamente fra parentesi il problema del bene, prima perché in modo manifesto e dichiarato si considera scienza, secondo perché in modo non dichiarato ma non meno evidente fa i propri interessi privati.
L’investitura autocertificata dell’economia di mercato come scienza esatta risulta
tra l’altro strategica anche nei confronti di quella che erroneamente e con inganno chiamano politica. Quella politica, quella di oggi, sprezzante e ridicola, cialtrona e da supereroe, ciarliera e silente, dorata e ladrona, di fronte alla quale si erge con apparente credibilità la decantata, efficiente, austera e rassicurante scienza del mercato.
Quello che si rischia è che il gregge impaurito, anziché cambiare l’incapace pastore, chiami in aiuto il lupo.
Si è deliberatamente creata una frattura tra politica ed economia. “La separazione dell’economia dalla politica, dalle motivazioni della politica, è una cosa sterile. Essa è anche una copertura per occultare la realtà del potere e delle motivazioni economiche” (J.K.Galbraith).
Il capitalismo finanziarizzato può porre le sue condizioni di debito in modo distaccato, perché così la scienza dei calcoli lo richiede, senza remore, ripensamento e senza colpa, e soprattutto senza più alcun ostacolo. Il Purgatorio prende forma di
tutto il nostro presente e futuro, lasciando ai suoi abitanti l’istituto del mattatoio sociale, completamente de-ideologizzato, dove ciascuno può esprimere, nella sua più piena libertà, la propria innocua, vana opinione. Un relativismo morale, un nichilismo ludico, dove l’unica cosa da prendere sul serio è l’impegno di essere debitori, ed essere sempre pronti a fare salti mortali per pagare le nostre indulgenze. Il Purgatorio è l’ambito in cui la “scienza economica” sperimenta.
Ma come detto prima per questa religione il Paradiso, almeno per tutti noi, non è contemplato, abbiamo allora la possibilità di rovinargli l’esperimento e smascherare una scienza che di scientifico e distaccato non ha proprio un bel niente.
Arrivati a questo punto, vogliamo riproporci la domanda con cui abbiamo iniziato questo scritto, rivoltandone però la risposta.
La crisi? Noi non centriamo. La colpa è degli algoritmi finanziari, dei derivati, dei mutui subprime, della JP Morgan, della
Goldman&Sachs, delle agenzie di rating, della politica monetaria, delle banche mondiali… .
Sembra poco, ma è da questa convinzione che si può ripartire per una politica del presente che sappia aggregare forme e individualità ribelli.
Solo così sapremo che l’unico dovere che abbiamo non è quello di estinguere il debito (solo perché i mercati ci guardano, in altre parole: l’occhio celeste della “religione scientifica” del mercato), ma che il nostro unico vero dovere è quello di spezzare l’invenzione del Purgatorio, del debito, e gridare che il loro esperimento oltre a non aver confermato il fenomeno, dimostra che la scienza in questione è un imbroglio. Un puro, infernale tentativo “per occultare la realtà del potere” e un’altra ipotesi di vita è doverosa.Lorenzo Chialastri