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The Country di Martin Crimp |
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La campagna è idillio, serenità, presuppone il verde tenero dei prati, quello più intenso ed articolato degli alberi e sentieri che si perdono con i loro bordi di fiori spontanei. Qui, in The Country dell’inglese Martin Crimp, la campagna è una striscia sottile di moquette verde con una deliziosa casetta in miniatura posta a sinistra sul proscenio e alberi attorno ad un rudere sul lato opposto, un pezzo di muro a secco che forse in origine era stato parte di un acquedotto romano. La casa della coppia Corinne e Richard è asettica e poco connotata, una grande parete di vetro la isola dal mondo esterno, un mondo fatto d’ombre, di luci livide, di oscurità, il salone dove si svolgono i fatti è arredato in modo sommesso, spartano, un tavolo, poche sedie, una poltrona. Nulla all’apparenza può suggerire quel groviglio di eventi, di misteri, di non detto che è il terreno dove cresce questa famiglia bizzarra. Fin dall’inizio si scopre che in quella coppia qualcosa di indecifrabile, di incompleto fa da argine e da muro. Lei, Corinne, una donna raffinata ed elegante, si diverte a ritagliare da una rivista illustrata delle figure che forse utilizzerà per decorare la camera dei bambini, lui, Richard, ciondola, risponde alle domande incalzanti di lei, che vuol sapere tanti perché, troppi perché per potere davvero sperare di ottenere verità dal marito, che fa il medico e si avvolge nel mantello invisibile della deontologia. Allora è per compiere pienamente il dovere della professione che ha raccolto sul ciglio della strada una bella ragazza svenuta, drogata o forse solo ubriaca, e l’ha portata dritto dritto a casa? E perché non ha recuperato la borsa o la pochette di lei? E avrebbe fatto lo stesso se invece di una bella ragazza a trovarsi disteso sul margine di una strada notturna di campagna avesse trovato uno sconosciuto? E davvero quei due non si conoscevano da prima? Corinne vuol sapere, perforare quella corazza, le sue domande, ancora formulate con il punto interrogativo di chi si aspetta risposte, obbediscono ad un atteggiamento mentale curioso benevolo educato, ma pennellato di incredulità. A salvare Richard dall’angolo di questo ring improvvisato ed invisibile provvede il telefono dove impera la voce di Morris, accolto con grande affettuosità da Richard, distrattamente da lei, che intanto rimugina fra sé su quell’incontro tra il marito e la giovane donna semi discinta. Anche lo spettatore di questo dramma borghese si fa le sue domande: perché questa coppia annoiata ha lasciato la città per rifugiarsi in campagna? Perché vive in una casa isolata, senza frequentazioni? Il loro rapporto fin dall’inizio appare sfilacciato e convenzionale, con qualche sfumatura di patetico. Lui rifiuta il bacio che lei richiede dapprima ricordandole di averla già baciata, poi adducendo il pretesto di dover fare prima una doccia. Dunque, un rapporto sbilanciato, ma in quale direzione, sembra chiedersi Corinne. Specialmente quando ritrova la borsa della ragazza nella macchina del marito e rimestando tra gli oggetti comincia a conoscere Rebecca, che vive anche lei in quella contrada. Il mistero e il dubbio si illuminano a vicenda, rimbombano solo in apparente contraddizione i silenzi fra i due, ma il solco sfrangiato del loro rapporto diventa un baratro. In questa tranche de vie non accade nulla, non c’è progressione di fatti, ma i sentimenti tumultuano, c’è una patologia del quotidiano, dove tuttavia non mancano gesti gentili, l’offerta di un bicchiere d’acqua, come un dono di pace. Eventi esterni alla claustrofobia di questo vivere a due sono il racconto di una passeggiata di lei in auto lungo una stradina di campagna che d’improvviso finisce in un baratro e lei si sorprende che dopo un attimo di esitazione sia scesa, abbia superato l’ostacolo e agilmente si sia inerpicata per la collinetta. Altri eventi vengono fuori in modo allusivo dal dialogo fra la bella ragazza seminuda e il medico, memorie prismatiche, scisse, di violenze, forse anche reciproche, di amore impuro, vissuto nell’incertezza dell’età di lei, che un po’ sogna, un po’ immagina, sedotta dall’ignoto, dall’interesse suscitato, tempo fa, forse la causa del trasferimento in campagna di Richard con la famiglia. Seguirla, per non perderla di vista. I tre attori in scena dialogano sempre in duetto, così che escludendosi il terzo elemento del triangolo, che l’inquietante e fantasmatica presenza solo telefonica di Morris trasforma proprio in un ring dove ci si colpisce duramente, la verità può essere solo sottesa, supposta. Evidente, senz’ombre resta la menzogna senza disvelamento, senza perdono, l’incomunicabilità fra i due coniugi. Resta quel finale aperto, con lei che ritorna a casa dopo essere come fuggita trascinandosi dietro i figli invisibili non solo come personaggi ( ma a che sarebbero serviti in questo contesto, d’altra parte? ), ma nel loro linguaggio e dunque nella loro valenza all’interno della famiglia. Sulla scena, attentissima, Laura Morante forgia la sua Corinne elegante, raffinata, cerebrale, con il cappottino rosso che esalta l’incarnato e i capelli scuri, puntualissima e mai eccessiva nel costruire un personaggio modulatissimo, spingendo sulla corda espressiva di una dizione da palcoscenico, assimilata in una carriera di successo, l’altalena oscillante fra gelosia e certi scoppi improvvisi di rabbia, appena temperati da quella richiesta di un bacio al marito, presente anche nell’ultima scena, che lascia i giochi aperti per una suspense finale da thriller. Anche se il suo compleanno è l’occasione per mostrare a se stessa persino che sono in tanti a spedirle bigliettini d’auguri e lui, Richard, le fa dono di un paio di scarpe scintillanti, forse inutili per percorrere stradine di campagna tra fiorellini di prato e erbette nane e odorose, ma così eleganti che indossarle completa l’arco dei piaceri. Sul piano opposto, a rappresentare una ragazza poco inibita, c’è la Rebecca, sfacciata e seduttiva di Stefania Ugomari Di Blas, in intimo total black, per tutta la durata della sua performance in scena a piedi nudi, un cuneo, un punteruolo che si insinua con ferocia disinibita nella mente di Corinne. Fra le due donne, a loro modo due archetipi borghesi, l’una, la moglie che si attende il train de vie che un matrimonio allietato dalla nascita dei figli e un certo benessere economico dovrebbero automaticamente consentire, l’altra, un’aliena sfrontata, senza scrupoli, aggressiva, carnale, si muove Richard, Gigio Alberti, per forza di cose schiacciato, anche per il pallore del suo personaggio, scontato rispetto a quelli femminili, un tipo da manuale del fedifrago. La regia di Roberto Andò si muove lucida e quasi scarna nei territori del mistero e della incompiutezza, e, minimalista ed essenziale, com’è, si articola in controtendenza con il dramma rappresentato a volte verboso ed iperbolico e con il magma incandescente di sentimenti, nevrosi e difficoltà di essere e di comunicare, sintetizzati dallo squillo del telefono ossessivo e ignorato proprio mentre si spengono le luci, quel malessere borghese che Martin Crimp racconta con tanta proprietà.Franzina Ancona |
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