Psicologia e Filosofia, la collisione delle idee
 











Cento anni fa ci si chiedeva come fosse possibile l’inconscio. Oggi il problema è piuttosto spiegare come possa esistere la coscienza umana. L’immagine dell’uomo fa i conti con un nuovo naturalismo. Il presupposto dell’assoluta diversità della natura umana rispetto a quella animale è andato in frantumi. Le neuroscienze, inoltre, mostrano quanto sia illusorio il primato dell’autocoscienza. L’intensa ricerca teorica di Giovanni Jervis (1933-2009), psichiatra e docente all’Università La Sapienza di Roma, ha scandagliato senza dogmatismi temi all’intersezione tra psicologia e filosofia: l’inconscio, la coscienza, l’identità, l’io, la persona.
“Freud e le sue idee hanno contribuito a mutare la concezione prevalente della natura umana, rendendola più realistica e meno ancorata ai moralismi tradizionali”, affermava Jervis. Vi erano in Freud impostazioni non univoche. Il fondatore della psicoanalisi fu un materialista. Quindi in linea di principio un
antidualista.
Eppure finì per trattare l’inconscio come una sfera dotata di una vita autonoma. A lungo gli ambienti più distanti dalla mentalità scientifica trovarono in Freud e nelle sue idee un sostituto alla conoscenza della psicologia moderna. Per i profani, rimarcava Jervis, le più comuni interpretazioni sessuali, e le indicazioni pratiche che ne scaturivano per la pedagogia o la problematica della salute mentale, costituirono “una psicologia intuitiva di grande suggestione e di agevole accesso”. Con inevitabili semplificazioni. Come accade in qualsiasi popolarizzazione. La media borghesia urbana dell’Occidente “trovò gratificante immaginare che vi fossero, negli oscuri sotterranei della psiche, saggezze nascose e segreti affascinanti da rivelare”.
Giovanni Jervis è stato tra i protagonisti della cultura italiana del secondo dopoguerra. Nato nel 1933 da una famiglia valdese, si laurea in medicina nel 1957 e si specializza in neurologia e psichiatria nel 1960. Collabora con
l’etnografo Ernesto De Martino. Fa parte del gruppo di Franco Basaglia, che avvia il rinnovamento dell’assistenza psichiatrica in Italia. Dal 1969 al 1976 Jervis realizza a Reggio Emilia una delle prime importanti esperienze di organizzazione dei servizi territoriali alternativi al manicomio. Nel 1976 diventa docente di Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma.
Durante questo periodo e fino alla scomparsa, nel 2009, studia i fondamenti teorici e metodologici della psicologia e gli aspetti psicologici dei problemi sociali e politici. Alcuni rilevanti suoi scritti sono proposti nel volume curato da Gilberto Corbellini e Massimo Marraffa: “Il mito dell’interiorità” (Bollati Boringhieri).
La riflessione di Jervis, spiegano i curatori, “coniuga una sofisticata capacità di analisi concettuale con una profonda conoscenza della letteratura sperimentale”. Egli ha mostrato come oggi siano proprio le scienze biologiche e psicologiche a fornirci gli strumenti per una critica
dell’immagine idealistica della persona. Senza però giungere agli esiti di quella tradizione che, ispirandosi a Nietzsche e Heidegger, evoca la dissoluzione del soggetto.
Jervis comprese che per costruire anche in Italia un senso civico adeguato alle sfide globali sarebbe stato utile innanzitutto migliorare l’istruzione scientifica. Contrastò le insensatezze degli orientamenti filosofici relativisti e antiscientifici. Prevalenti nella cultura italiana che si autodefinisce “riformista”. Non risparmiò critiche nei riguardi del “pensiero debole”, proposto da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti.
Per Jervis il “pensiero debole” era una tipica manifestazione della deriva soggettivistica, antirealista e antiscientifica delle recenti correnti filosofiche postmoderniste.
Quelle posizioni cioè che fanno riferimento all’ermeneutica, all’esistenzialismo nichilista e al costruttivismo soggettivista.
Sul piano storico, fu con la crisi politica e culturale dei movimenti di ispirazione
marxista, che il “pensiero debole” si affermò in Italia. Come manifestazione nostrana delle filosofie antimoderne.
Nate in antitesi alle tradizioni positivista o neopositivista. Quali le ragioni del successo accademico e mediatico di teorie fondate su mere chiacchiere?
Probabilmente, suggerisce Corbellini, tali posizioni hanno rappresentato una difesa del settore accademico-culturale umanistico, rispetto all’invasione di campo da parte delle nuove scienze.
I seguaci di Heidegger, con le loro fumisterie nichiliste e gli argomenti antimaterialisti e antiriduzionisti, non sapevano far altro che lanciare maledizioni contro il “trionfo della tecnica”. Ovvero definire “cascami reazionari” gli atteggiamenti pragmatici di chi prendeva atto delle risposte a questioni teoriche e pratiche che scaturivano dagli approcci naturalistici. La formazione scientifica di Jervis gli ha evitato le intossicazioni spiritualistiche, idealistiche e antiscientifiche della tradizione filosofica italiana.
In modo non diverso da come era accaduto a Vittorio Somenzi: di fatto il primo, e per lungo tempo l’unico, filosofo italiano che si sia accorto delle novità conoscitive recate da biologia molecolare, neurobiologia, etologia ed evoluzionismo. Tanto da far apparire molti problemi gnoseologici discussi dalla filosofia tradizionale come privi di senso.
L’intransigenza morale di Jervis era irritante per molti intellettuali e accademici italiani. Le reazioni degli ambienti un po’ snob della cultura di sinistra rispetto alle sue posizioni sono dovute anche all’invidia e al risentimento personale. Prima di altri si rende conto che i presupposti teorici del marxismo erano del tutto sbagliati, rispetto alle predisposizioni sociali ed economiche connaturate all’uomo.
Il rispetto dei metodi di ricerca empirica era la base del suo antidogmatismo. Legato probabilmente alla sua formazione di medico. Non ha mai mitizzato le scienze empiriche. O giustificato le estrapolazioni improprie di modelli
teorici dai campi in cui funzionavano ad ambiti che trattavano di fenomenologie diverse e più complicate. Come gli studi sulle dinamiche psicologiche e sociali umane.
La valorizzazione critica del metodo scientifico e della contestualizzazione storica lo hanno tenuto agganciato agli approcci naturalistici al comportamento umano.
Egli ha sempre insistito sul fatto che la psicoanalisi era nata come tentativo di produrre un sapere naturalistico sul funzionamento normale e patologico della mente umana. Le scoperte della psicologia e dell’antropologia evoluzionistiche e cognitive sono servite a Jervis per affrontare l’analisi dei comportamenti politici. E criticare nel merito l’inadeguatezza di larga parte dei programmi politici e dei progetti di riforma sociale concepiti in Italia. Perché privi di un’analisi obiettiva delle situazioni da riformare. E di strategie plausibili per migliorare la convivenza civile. Jervis è convinto che l’approccio evoluzionistico o darwiniano costituisca
uno strumento euristico indispensabile per dar senso alle riflessioni sulle dimensioni psicologiche del comportamento individuale e sociale.
Scienza, storia e darwinismo lo hanno portato a sostenere la superiorità dell’approccio laico nell’impostazione e soluzione dei problemi sociali e politici. Assegnare alla cultura un primato indiscriminato è sbagliato. Si corre il rischio di fornire spiegazioni dei fatti sociali, politici o economici che scambiano le cause con le conseguenze. Esemplari sono in tal senso le sue pagine sul problema del razzismo. Jervis lo interpretava come l’emergere di predisposizioni comportamentali insite nel nostro patrimonio ereditario di specie. Scatenate talvolta da situazioni di incertezza economica e di disordine sociale.
Sappiamo che le razze nella specie umana non esistono. Ma ricevere l’informazione scientifica che il razzismo non ha alcuna base empirica, non influenza le intuizioni emotive del cervello. Esse si attivano spontaneamente in
situazioni di conflittualità sociale, con persone culturalmente e somaticamente diverse.
La coerenza e l’apertura critica verso le novità scientifiche e culturali in generale, che hanno caratterizzato la ricerca intellettuale di Jervis, “non sono state premiate da una cultura italiana che in modo abbastanza generalizzato continua a oscillare tra il parrocchiale e il provinciale”. Una cultura conformista persino quando abbraccia nuove frontiere della conoscenza.Pasquale Rotunno