Veleni, ecco le altre ’Ilva’ d’Italia
 











L’Ilva ma non solo. Il caso dello stabilimento siderurgico di Taranto sta riempiendo le pagine delle cronache nazionali ma in tutta Italia ci sono decine di casi analoghi completamente dimenticati. Sono oltre 4300 i siti di cui è stata accertata la contaminazione, più altri 15 mila potenzialmente contaminati. Per non parlare dei 57 casi più gravi, i cosiddetti "Siti di interesse nazionale" (Sin), che da soli coprono il 3 per cento del territorio italiano. Rientrano in questa classificazione alcune delle più importanti aree industriali della Penisola, come i petrolchimici di Porto Marghera, Priolo e Gela o le aree industriali di Bagnoli, Piombino e Trieste. Eppure in molti casi le istituzioni non conoscono il tipo di inquinamento né l’esatta porzione di territorio interessata e molte regioni non hanno neppure istituito un anagrafe delle località "infette". Per non parlare degli interventi di bonifica, che non sono stati realizzati se non in minima parte, spesso in assoluto ritardo e che a volte si sono perfino rivelati inefficaci.
A fare il punto è la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, che l’Espresso è in grado di anticipare in anteprima. Un documento durissimo che definisce il panorama "desolante", vittima di una gestione "fallimentare" e che mette a nudo le inefficienze (collusioni in più di una circostanza) di una pubblica amministrazione che senza eccezioni fra Nord e Sud non è in grado di tutelare la salute dei cittadini.
«Ci sono state 1200 conferenze dei servizi e 16 mila elaborati progettuali» ha rivendicato in un’audizione Stefania Prestigiacomo ai tempi era ministro dell’Ambiente. Parole che a detta della commissione (guidata peraltro da un esponente di centrodestra come l’ex Pdl Gaetano Pecorella) dimostrano un inutile scambio di carte e pareri fatto apposta per dare l’impressione del movimento mentre tutto è fermo. Non a caso, proprio come avvenuto a Taranto, le
istituzioni si sono sempre mosse solo dopo che la magistratura è intervenuta. Al punto che numerose audizioni sono state una sfilata di magistrati provenienti da ogni parte d’Italia che raccontavano, ai parlamentari allibiti, le quotidiane violazioni che si sono trovati ad affrontare.
Uno dei casi più gravi è rappresentato dall’ex arsenale militare della Maddalena, in Sardegna. I fondali marini sono ancora gravemente inquinati dai metalli pesanti nonostante la bonifica, al punto che i pm stanno cercando di capire se il progetto sia stato eseguito male o fosse sbagliato in partenza. Nonostante indagini di mesi, i magistrati non sono ancora riusciti a capire quanto lo Stato abbia pagato per questa operazione inconcludente. Non solo. All’appello mancano 20 mila metri cubi di materiali, come se fossero spariti. Non ve n’è traccia e nessuno riesce a ricostruire dove siano stati portati.
Non va meglio nella Valle del Sacco, il fiume in provincia di Frosinone dove per anni le aziende
ciociare hanno scaricato le acque sporche delle loro lavorazioni. Quelle stesse acque dove gli allevatori della zona, ignari, portavano il loro bestiame ad abbeverarsi. Se la bonifica non è mai partita, in compenso gli inquinanti sono entrati nella catena alimentare. I risultati? Patologie cardiovascolari e respiratorie, tumori della pleura e asma bronchiale nettamente sopra la media per via dell’esposizione ai prodotti chimici e all’amianto. In prospettiva si prevede un’impennata di particolari forme tumorali e del morbo di Parkinson. E gli abitanti che non si ammalano diventano comunque portatori sani dell’insetticida beta-esaclorocicloesano, come riscontrato per 246 residenti sottoposti ad accertamenti nell’ambito di un apposito monitoraggio. Usato per la produzione di Lindano nelle industrie chimiche della zona, questo pesticida (vietato dal 2001) mantiene intatti i sui potenziali effetti tossi su sangue, fegato e reni anche a distanza di anni.
Nella Valle del Sacco solo per il
ripristino e la messa in sicurezza servirebbero oltre 660 milioni. Costi elevatissimi, che spiegano perché intorno alle bonifiche, come per la gestione dei rifiuti, ci sia un business milionario fatto di consulenze, studi, gestioni commissariali decretate sull’onda dell’emergenza e progettazioni che spesso finiscono puntualmente nel nulla. E dove i controllati di frequente sono anche controllori, pure quando sono soggetti pubblici.
L’Istituto superiore di sanità (Iss), ad esempio, denuncia la relazione, "in alcuni casi ha operato come vero e proprio ’progettista’ degli interventi". Dovendo dare esprimere un giudizio su quegli elaborati, resta da capire "quanto possa essere imparziale un parere espresso in tali condizioni". In altri casi, come a Bagnoli e nel litorale vesuviano, l’Iss ha invece svolto monitoraggi ambientali e indagini epidemiologiche. Costo della convenzione: 1 milione e 150 mila euro. Peccato che quelle fossero "prestazioni già dovute istituzionalmente", essendo
l’Istituto un organo del Servizio sanitario nazionale vigilato dal ministero.
E proprio a Bagnoli si registra uno dei casi-limite che meglio rappresentano queste sovrapposizioni pericolose: nonostante uno stato di totale abbandono, degrado e pericolosità ambientale, il sito era giudicato adatto per svolgervi le regate dell’America’s Cup. La Provincia di Napoli lo aveva messo nero su bianco con certificazioni ottimistiche: quell’area, proprietà di Bagnolifutura, non dava più problemi. Incidentalmente Bagnolifutura, proprietaria dell’area, è partecipata dalla Provincia stessa. La situazione è invece un’altra, raccontano le carte: dopo un’opera di messa in sicurezza, svolta oltre dieci anni fa, "nulla è cambiato". Tanto che a un centro sportivo, realizzato in zona, non può aprire al pubblico perché non ci sono certezze sull’assenza di rischi per la salute. Così, quando si è possa la Procura, tutti hanno subito cambiato idea sull’affidabilità del sito. E l’allora vicesindaco di Napoli,
ha raccontato il magistrato inquirente alla commissione, proprio in ragione delle indagini avviate, si spese molto con l’Istituto superiore di sanità per la stipula di una convenzione con cui l’Iss validasse i dati delle attività di Bagnolifutura.
Nell’ex polo chimico di Pioltello-Rodano, vicino Milano, le indagini hanno perfino interessato il commissario delegato del governo Luigi Pelaggi. Secondo la Procura, infatti, Pelaggi avrebbe ricevuto o si sarebbe fatto promettere almeno 700 mila euro dall’amministratore della società incaricata della bonifica, la Daneco Impianti, per emettere provvedimenti amministrativi favorevoli tali da comportare lavori di esecuzione più "economici". Anche a Gela, il petrolchimico ha lasciato dietro di sé una situazione gravemente compromessa, con una lunga scia di morti per tumori polmonari, allo stomaco e malattie respiratorie acute. Pure qui i supercommissari dai poteri amplissimi si sono rivelati inutili. "L’esperienza siciliana in materia di
bonifiche è la prova lampante dell’assoluta inettitudine delle strutture commissariali", denuncia la relazione. Sempre nell’isola, per mettere in sicurezza dall’amianto l’area della baraccopoli allestita dopo il terremoto del Belice ci sono voluti 40 anni: il sisma era del 1968, il grosso del lavoro è terminato nel 2009. E le attività non sono ancora terminate del tutto.
Nella Laguna di Grado e Marano, invece, l’emergenza ambientale per i fanghi al mercurio non è mai finita: la struttura commissariale doveva durare un anno mesi e invece, proroga dopo proroga, ne è durata dieci. Costo: oltre 100 milioni di euro. Per di più buttati al vento, perché la Procura di Udine ha scoperto che i lavori di bonifica hanno provocato, a loro volta, gravissimi danni alla laguna perché non sono stati svolti a norma. Oltre al danno, la beffa. Il paradosso di una bonifica "peggiorativa" non è però una prerogativa friulana.
Dal 2002 al 2006 il commissario delegato per le zone di Crotone, Cerchiara e
Cassano ha lasciato cadere nel vuoto tutte le decisioni assunte nelle varie conferenze dei servizi. Poi, dopo la sostituzione, è stato messo a punto un piano che prevedeva di trasportare i rifiuti dalla zona marina a quella collinare del capoluogo: centinaia di migliaia di viaggi di camion che avrebbero dovuto attraversare l’intera costa della provincia carichi di fosfogessi, fibetta d’amianto e scoria cubilot, derivato dalla lavorazione delle ferriti di zinco per raggiungere la discarica di Gaimmiglione col rischio concreto di disperdere il materiale inquinato e contaminare tutto il percorso. Vicino Napoli invece, ci hanno pensato i casalesi: modificando i codici degli scarti industriali, hanno fatto giungere 30.700 tonnellate di rifiuti tossici da Cengio (Savona) a
Giugliano, in un territorio controllato dal clan Bidognetti.
Un quadro nel complesso sconfortante, cui si sommano le difficoltà per ottenere il pagamento degli interventi, tutt’altro che facile. Davanti alla
prospettiva di tirare fuori decine di milioni, le aziende cercano di procrastinare le bonifiche con pratiche dilatorie che vanno dai semplici programmi "intermedi" ai ricorsi davanti a Tar e tribunali, col risultato di sospendere l’efficacia dei provvedimenti amministrativi emessi nei loro confronti. Ma resta sempre la scorciatoia: quando proprio non sappiamo come intervenire, paghiamo (a caro prezzo) qualcuno che lo faccia per noi all’estero. Così, dal momento che sul territorio nazionale la capacità impiantistica è ridotta, una quantità ingente di terreni contaminati viene inviata in Germania. Proprio come avviene per l’immondizia. La classica polvere nascosta sotto il tappeto.Paolo Fantauzzi-l’espresso