Teatro Sistina: My Fair Lady
 











I fatti son tutti lì. Nella memoria collettiva, ma le riflessioni su quei fatti lievitano con gli anni, i decenni, i secoli. Il linguaggio è specchio della mente e dell’anima? Se così fosse si può forgiare una ragazzotta e farla diventare una charmante duchessa.
Se lo chiese George Bernard Shaw, ma motivato da intenti sociali, se lo chiesero Alan Jay Lerner e Frederic Loewe nel 1956 quando decisero di far conoscere la storia di Eliza, rozza fioraia londinese, in un musical che spopolò immediatamente nel mondo e che poi fu convertito in un film raffinatissimo da George Cukor in quel lontano 1964 con Audrey Hepburn e Rex Harrison.
Oggi se lo chiede Massimo Romeo Piparo al Teatro Sistina con una Eliza /Vittoria Belvedere e un Higgins/Luca Ward. Tutto parte da lontano, da quella Grecia classica ( terra madre di ogni cultura tanto che nell’ampio petto sapeva nascondere i semi della futura psicoanalisi), che narra di Pigmalione, fratello di Didone,
regina di Cartagine, ricordata per l’infelice amore per Enea.
Lui non era tipo facile da accontentare in fatto di donne, nessuna era all’altezza delle sue aspettative e, poiché l’uomo è nato per stare in coppia, e sennò a che serviva Eva?, un giorno chiamò un bravo artigiano, gli consegnò una grossa zanna d’elefante e gli chiese di forgiargli una statua con forme femminili. Quando la vide tornita e lucidata con le morbide fattezze e quella pelle liscia se ne innamorò perdutamente, tanto da darle un nome, Galatea. Venere che sdilinquisce per queste cose, trasformò l’avorio in carne e lui, l’amante Pigmalione, diventò marito e padre. Oggi si sarebbe assemblato un magnifico robot umanoide, o una bambolona gonfiabile con lo stesso risultato e meno fatica. Shaw rivolta l’ottica, lui, il suo pigmalione, tutto vuole, corpo, cervello, anima con l’apparato di sensibilità compreso.
Basta andare in quel di Londra a ricercarsi una ragazzotta dalla faccia sporca, che parla uno spregevole
cokney e lavorarci un po’ su. Una scommessa fra un glottologo e un antropologo venuto da lontano, e Eliza Doolittle finisce nella rete, lavata, sgrassata di tutto quel carbone che le nasconde le guanciotte rosee e gli occhioni blu e quel nasino impertinente da monella. Ed eccola rivestita di belle sete, lì, nella casa dell’illustre e misantropico prof. Higgins, dove le si offre di mangiar bene e abbigliarsi adeguatamente per sei mesi, il tempo di dirozzarsi e permettere al suo ospite di vincere la scommessa. La sguaiata Eliza che apre le vocali alla siciliana (reo del cadenzare è Andrea Camilleri), che aspira come una calabrese, si ritrova a ripetere frasette insipide che devono pian pianino farle atteggiare le labbra e stringere i denti e sbattere il fiato sul palato per potere parlare un inglese (ma a Roma, per fortuna parla italiano) comm’il faut. E lei continua a sillabare che “la pioggia in Spagna bagna la campagna”, finché le o miracolosamente si chiudono come a soffiare un bacio, le a si contraggono sulle guance e la parola fila liscia ed elegante.
Eliza non c’è più, Eliza si è trasformata, Eliza può suscitare amore in un giovane del bel mondo dorato, ma, finiti quei sei mesi, attinta la vittoria, cosa resta alla crisalide, divenuta farfalla? E cosa resta da fare a Higgins se la farfalla apre le ali e vola via? Ce lo raccontano danzando e ballando un Higgins raffinato ed elegante, dalla voce suadente e fascinosa come Luca Ward, brontolone e misantropo per difetto di conoscenza del mondo femminile, ma appassionato delle possibilità della cultura, della lingua corretta e dell’educazione, l’unica linea di demarcazione sociale, l’unica vera frontiera invalicabile fra le classi, più della ricchezza o dei titoli.
Perciò quando Eliza ha superato il limite, il suo demiurgo non può staccarsi dalla splendida creatura che ha forgiato. Eliza, d’altra parte, man mano che la sua mente diventa forma/parola, che la sua capacità espressiva si sovrappone al suo
pensiero, lievitando verso l’universo delle buone maniere, diventa un’apolide, per lei niente più le luci scintillanti del teatro e le belle signore cui offrire mazzetti di violette, ma una prospettiva di vita aperta nel nulla intermedio, se l’amore d’improvviso non corresse al riparo sul suo destriero alato per trasportarla nei campi sterminati della felicità. E il pubblico del Sistina dà una bella spinta alla sfera dei sentimenti ed eccoli pronti per sognare. Eliza è la bella e brava Vittoria Belvedere, un po’ Pretty Woman, un po’ Cenerentola, un po’ Mary Poppins, secondo la definizione di Massimo Romeo Piparo. Eliza, che si deve difendere da un padre grande ubriacone e uomo dall’humour molto british, che la vende per 5 sterline e finisce poi con la sua saggezza da “moralista” sui generis per diventare erede di un patrimonio milionario.
Bravissimo l’esperto Aldo Ralli, perfetto nel rammarico “Alfred Doolittle prende moglie” quando dà l’addio alla sua libertà fra pinte di birra
schiumante. Enrico Baroni è l’impeccabile colonnello Pickering, deus ex machina per l’azione fin dal momento in cui accetta la scommessa della trasformazione di una plebea ignorante in raffinata signora. Il giovanotto che canta e “Cammina già tra le nuvole” dopo avere conosciuto Eliza è l’attore, compositore e tenore Roberto Lovèra dalla voce lirica squillante e purissima.
Le belle scene, e in primis la biblioteca dove impera Higgins, sono di Aldo Di Lorenzo. Lo spettacolo, una nuova edizione sfavillante e sfarzosa, con belle coreografie ben danzate di Roberto Croce, la direzione musicale di Emanuele Friello, si avvale di ben sette cambi scena e di oltre cento costumi alla moda dell’epoca, fra i quali spicca quello bianco ricamato e il mantello rosso scarlatto della scena del ballo di Corte di Eliza.Franzina Ancona