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Perché Obama frena le pruderie anti europee di Cameron |
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Alla perfida Albione rode ancora aver perso l’Impero conquistato con il sangue dei popoli colonizzati e cementato dalla razzia delle loro ricchezze. Belli i tempi lontani nei quali la Gran Bretagna guardava con sufficienza e con senso di superiorità i continentali europei. Belli i tempi nei quali sull’Impero britannico non tramontava mai il sole. Tutto finito ma non dimenticato. Un mondo del quale restano alcuni retaggi come la guida a sinistra ed il rito del thè pomeridiano da Fortnum&Mason. Un mondo che il governo vorrebbe ricreare attraverso una patetica riforma scolastica per fare studiare, e poi per reintrodurre, le vecchie unità di misura come il miglio al posto del chilometro, la pinta al posto del litro, il pollice invece del centimetro e l’oncia pari quasi ad un terzo di un etto. Quando Londra dominava i mari (“Oh Britannia rules the waves”) la Gran Bretagna era la prima potenza mondiale e la City il primo centro finanziario. Poi, dopo la Prima Guerra Mondiale entrambi i settori sono stati occupati, il primo dagli Stati Uniti, il secondo da Wall Street, e per Londra è stato l’inizio del declino che ha dispiegato tutte le sue potenzialità dopo il 1945, al termine di una guerra che Churchill si era illuso di aver vinto politicamente oltre che sul piano militare. Ma anche qui, se non ci fossero stati gli Usa, gli insulari sarebbero diventati sudditi dell’uomo con i baffi. Ma le pruderie di un tempo, quando Londra si credeva in diritto di avere un Impero e di doversi mettere sulle spalle “il fardello dell’uomo bianco”, si sono soltanto assopite ed è bastato che da Buenos Aires arrivasse una dichiarazione di Cristina Kirchner sulle Malvinas (Falkland per gli isolani), indicate come parte integrante del territorio argentino, per spingere il primo ministro, David Cameron, a dichiarare di essere disposto ad una guerra per difendere il possedimento nell’Atlantico del Sud e mandare la flotta o peggio come ai tempi della Thatcher. Con la crisi economica in corso, anche Londra sta cominciando a riconsiderare la sua partecipazione all’Unione Europea. A metà dicembre Cameron ha avviato le danze con il veto all’approvazione del bilancio europeo per il periodo 2014-2020. Ora a Downing Street si sta pensando addirittura ad un referendum popolare sulla permanenza nell’Unione. Londra in effetti non ha mai amato l’Europa e basterebbe solo pensare al fatto che ha continuato a mantenere la sterlina. Ma è tutta la storia dei rapporti con la terraferma continentale che testimonia in tal senso. Londra, pur entrando nell’allora Comunità economica europea (Cee), ha svolto più o meno apertamente il ruolo di cavallo di Troia degli Usa, proprio al fine di sabotare la nascita di un soggetto politico ed economico forte ed unito, con una propria moneta, ed in grado di insidiare il ruolo di Washington come prima potenza globale. Intuendo questo atteggiamento ambivalente di Londra, forte anche dei legami anglofoni trans-atlantici, De Gaulle non volle mai che Londra entrasse nell’allora Cee. Un De Gaulle che già nel corso della Seconda Guerra Mondiale aveva toccato con mano e intuito come Londra si sentisse molto più legata agli ex coloni che l’avevano ormai sorpassata. Una ostilità che non era soltanto dei gollisti “storici”, sicuramente non di un post-gollista “atlantico” e filo Usa come Sarkozy, ma che coinvolge anche esponenti di primo piano della sinistra francese. Basterebbe pensare al socialista Jacques Delors uno di quei “Grand Commis” di Stato che prima di ogni altra cosa tengono all’interesse nazionale. Prima di Natale, Delors ha ricordato che nel 1973, quando era presidente della Commissione europea, l’allora presidente Georges Pompidou (1969-74) gli chiese di non opporsi, come era invece sua intenzione, all’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. E che lui acconsentì a malincuore perché era il “suo” Presidente che glielo chiedeva. Ma ora Delors, dall’alto dei suoi 87 anni e della sua esperienza, non avendo più nulla da perdere, ha dichiarato che non si capisce cosa Londra ci stia a fare nell’Unione Europea e che potrebbe pure andarsene, visto che, come per il bilancio 2014-2020, ha votato no trascinandosi dietro anche 10 Paesi membri di più recente adesione. Un Delors quindi che, come De Gaulle, avverte che Londra rappresenta una spina nel fianco di una Europa forte economicamente e politicamente. Una Europa che potrà pure essere fortemente condizionata dalle lobbies finanziarie ed industriali ma che comunque rappresenta un concorrente degli Usa e con una moneta, l’euro, che potrebbe divenire una seria concorrente del dollaro come moneta di riferimento nelle transazioni internazionali. L’assurdo di questa posizione ambivalente, che Londra ha potuto coltivare, viene aggravata poi dal fatto che oltre il 70% delle transazioni di titoli emessi in Europa viene trattata nella City londinese. Non si capisce davvero come le autorità europee e i governi continentali abbiano potuto permetterlo. Cosa ci stanno allora a fare la Banca centrale europea e la Borsa di Francoforte? Due organismi che avrebbero dovuto porsi come il centro finanziario dell’Unione? E’ stata idiozia o qualcosa di peggio? In effetti si deve segnalare che la Gran Bretagna, nell’ultimo decennio, ha operato una decisa svolta passando da una economia incentrata sulla produzione industriale ad una legata più ai servizi finanziari. Da qui il maggiore ruolo acquisito dalla City di Londra. Una finanziarizzazione dell’economia che ha coinvolto seppure in misura minore anche gli Stati Uniti. Certo anche oltre Atlantico il peso delle banche è enorme e spropositato ma anche ai grandi gruppi finanziari ed industriali non sfugge il fatto che un Paese come gli Usa non può vivere di sola finanza e che investire sulla ricerca e sull’innovazione industriale è fondamentale per conservare il predominio militare e di conseguenza tutelare il ruolo del dollaro come “moneta di occupazione”. Questa premessa è necessaria per spiegare i malumori che Barack Obama ha manifestato a Cameron. In questa fase infatti, Washington paradossalmente ha bisogno di un Europa forte e unita. L’idea della Casa Bianca e degli ambienti che sostengono il maggiordomo di Wall Street è che una Unione europea forte e solida dal punto di vista economico sarà più in grado di assorbire la produzione delle imprese americane. Inoltre, Obama, che ne ha già parlato con i governi europei, vagheggia una grande “Area di Libero Scambio” tra gli Usa (con Canada e Messico) da una parte e l’Unione Europea dall’altra che permetta a tutti i partecipanti di contrastare più efficacemente la nascita inevitabile di un grande mercato asiatico guidato da Cina, Giappone e India la cui forza economica promette tra 10-15 anni di essere superiore a quella di Usa e Ue messe insieme. Ma vi è un altro elemento che ha spinto ad Obama a dissuadere Cameron a perseguire una via isolazionista. Ed è il fatto che una Unione Europea, priva dei freni e degli ostacoli posti dalla Gran Bretagna e dalle sue compagnie petrolifere (BP e Shell), sarebbe portata fisiologicamente a legarsi sempre più alla Russia per le forniture di petrolio e di gas e come mercato di sbocco per i propri prodotti. Ed essendo Mosca molto legata alla Cina per gli stessi motivi, Washington rischierebbe di veder nascere un gigante euro-asiatico in grado, questa volta sì, di ridurre notevolmente l’influenza degli Usa sullo scacchiere internazionale.Filippo Ghira |
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