|
|
Net Economy, sì alla tassa sul flusso di dati |
|
|
|
|
|
|
|
|
Come contrastare le pratiche fraudolente delle grandi internet company – come Google, Amazon, Facebook e molte altre – le quali praticano l’evasione fiscale su larga scala grazie a un semplice trucco: invece di pagare le tasse nei Paesi in cui generano profitti, le pagano in altri Paesi, assai più “morbidi” in materia di politiche fiscali, dove hanno opportunamente fissato la propria sede legale? Il compito non è facile perché questi escamotage, ancorché immorali, non violano la legge. Tuttavia le grandi nazioni europee vittime del raggiro non si rassegnano, sia perché le cifre in ballo sono enormi, sia perché recuperarle servirebbe a tappare, almeno in parte, i buchi che si sono aperti nei bilanci di molte nazioni. Fra le varie soluzioni allo studio, ho trovato di grande interesse quella che due esperti fiscali (Pierre e Nicolas Collin) hanno suggerito al governo francese: invece di tassare i profitti, si cominci a tassare il flusso di dati e informazioni generato da queste imprese. Idea peregrina? Assolutamente no: per questi signori, infatti, i dati rappresentano l’unica, vera materia prima del processo di valorizzazione; è esattamente sulla mostruosa quantità di informazioni “succhiate” agli utenti dei propri servizi, infatti, che costoro fondano i loro modelli di business. Ne sono la più evidente conferma le feroci azioni di lobbying che vengono messe in atto ogni volta che qualche governo si azzarda a proporre, in nome della privacy, regole più vincolanti contro il tracciamento sistematico dei comportamenti online degli utenti/consumatori; i dati sono l’oro virtuale della Net Economy, è solo grazie ad essi che prosperano legioni di pubblicitari, società di marketing, spacciatori di prodotti e servizi di ogni tipo che, proprio per questo, sono disposti a pagare profumatamente i colossi che monopolizzano i nodi strategici dei flussi informativi. Ma quel che ho trovato ancora più interessante è il fatto che Colin & Colin fanno ricorso al concetto di “lavoro gratuito” degli utenti, in quanto costoro, argomentano, contribuiscono con i loro dati a realizzare la principale fonte di profitto delle imprese digitali. Si tratta di un concetto che il sottoscritto utilizza da tempo, al punto da identificarvi il principio fondatore delle cosiddetta economia della conoscenza, il paradigma di una nuova modalità di sfruttamento capitalistico che ha la straordinaria capacità di spacciarsi per una “nuova economia” in cui tutti vincono: le imprese perché fanno i soldi, i prosumer perché non pigliano una lira in cambio della loro creatività ma, in compenso, si divertono (vedi quanto ho scritto in “Felici e sfruttati”). A parte la soddisfazione di vedere confermata la mia analisi, tuttavia, è proprio la correttezza del ragionamento di Colin & Colin a farmi dubitare che la loro proposta verrà presa in considerazione, e non tanto perché, come osserva l’articolo linkato in precedenza, sarebbe difficile “misurare” il flusso dei dati e attribuirvi un valore economico “oggettivo”, ma soprattutto perché riconoscere l’esistenza del rapporto sociale di sfruttamento su cui si fondano le fortune della New Economy e delle imprese hi tech suonerebbe come una vera e propria “eresia” in un’epoca in cui tutto quanto odora di digitale può essere solo positivo, progressista, democratico, innovativo e via celebrando.Carlo Formenti
|
|