|
|
La politica nel tritacarne dei postismi |
|
|
|
|
|
|
|
|
«Ci è stato spesso detto che la politica è potere, e naturalmente questo è vero. Più recentemente ci è stato detto che la politica nell’epoca dei mass media è immagine: ho paura che ci sia qualcosa di vero anche in questo. Ma in una democrazia la politica è qualcosa di più che la lotta per il potere e la manipolazione dell’immagine» Arthur Schlesinger Jr. [1]
Il tema era già stato anticipato dallo stesso autore dodici anni fa: «se un’inversione di rotta è possibile immaginare… essa non potrà provenire né dalla mano invisibile delle derive impersonali dell’economia, né da quella visibile di una qualche avanguardia dotata di un’adeguata tecnologia del potere, bensì dalla scelta consapevole di un numero ampio d’individui liberamente cooperanti nel compito impervio di vivere qui e ora -–non di ‘progettare’, né tantomeno di ‘costruire’, ma di praticare – rapporti sociali radicalmente diversi» [2]. Marco Revelli, politologo da sempre dalla parte della Sinistra Sociale, torna a interrogarsi con il suo ultimo saggio sulle mutazioni in corso della politica, nel crollo verticale di credibilità del soggetto che l’aveva organizzata ed egemonizzata per tutta la fase della Prima Modernità: il partito. La domanda che possiamo porci con il saggista torinese è se la perdita totale, da parte di tale modello organizzativo, della passata capacità di intercettare il pluralismo degli orientamenti generali in senso deliberativo discenda meccanicamente e semplicemente da un salto di paradigma, in una maldestra scimmiottatura delle tesi epistemologiche di Thomas Khun. Insomma, una pseudo spiegazione facendo ricorso ai vari determinismi postistici (postmoderno, postindustriale, postfordista e via andando…) che lavorano per sottrazione: il riferimento a “un prima” nell’incapacità di definire “il dopo” (post); in cui si insinua troppo spesso una sorta di bisbigliata ineluttabilità, all’insegna del TINA (non ci sono alternative, there is no alternative), dell’one best way; forse del “migliore dei mondi possibili”. Vanno così a nozze le spiegazioni sovrastrutturali – che certamente presentano un qualche margine di plausibilità - secondo cui la società di massa va in tilt nel momento in cui il mercato di massa non riesce più a rispondere alla crescente domanda di personalizzazione (tesi consulenzialese, da Peter Drucker a Tom Peters); oppure l’argomento secondo cui il diffondersi della sicurezza materiale nell’Occidente postbellico determina a ogni successione di coorte generazionale la graduale migrazione dei valori dal quantitativo al qualitativo (tesi antropologica culturale di Ronald Inglehart). D’altro canto, un sano materialismo consiglierebbe almeno integrare tali chiavi di lettura con la consapevolezza dei rapporti di forza e delle poste in gioco. Come proprio il nostro Revelli ci invitava a fare oltre tre lustri fa, ragionando sulle rotture strutturali, determinate da interessi strategici tradotti in chiare determinazioni politiche. A partire dalla rivoluzionaria “decisione delle decisioni”, presa dal presidente americano Richard Nixon, di promulgare la fine del sistema monetario di Bretton Woods. Quel fatidico 1971 che inizia a smantellare l’ordine welfariano con «la drammatizzazione della questione dell’inflazione la quale sostituisce, nell’agenda politica, il tema della piena occupazione» [3]. Cui farà seguito l’ultra fatidico 1973, l’anno della guerra del Kippur (start alla migrazione del Capitalismo nella sfera virtuale/finanziaria, a fronte dei limiti emersi alla sua riproduzione in quella materiale) e del colpo di stato in Cile (prova generale della svolta bellicista e postdemocratica dell’Occidente). Rotture-battistrada dell’avvento thatcheriano-reaganiano, che imporrà il lungo ciclo reazionario da cui forse solo ora stiamo fuoriuscendo. Nel frattempo, è nell’arco di questi quarant’anni che si è consumata la catastrofe della forma-partito in discussione. Il periodo in cui avviene la compiuta omologazione della corporazione politica; che – per quanto riguarda il caso italiano - proprio Revelli aveva anticipato nel 1996 proponendo la formula di successo delle “Due Destre”: una tecnocratica e l’altra populista, le quali ormai rappresenterebbero l’intera gamma dell’offerta politica disponibile dopo «la sconfitta strategica della sinistra degli anni ottanta» [4]. Normale, nel quadro in cui si è persa ogni vaga idea di alternativa, che il corpo sociale stenti a trovare ragioni di identificazione; inevitabile che nell’autoreferenzialità di un ceto politico formato da imprenditori di se stessi emergano potenti derive alla collusione (in tutta la gamma di significati che tale termine può assumere): un quadro sconfortante che scatena l’indignazione come spirito del tempo. A cui Revelli vorrebbe offrire un linimento ricorrendo alle analisi di successo di due intellettuali francesi: Bernard Manin e Pierre Rosanvallon; forse più brillanti che profonde, come non di rado capita ai nostri cugini d’oltralpe. Manin ci spiega con il “modello della democrazia del pubblico” (riprendendo ben più ficcanti analisi di Richard Sennet sulla “politica star-system” [5]) che «i partiti rimangono fondamentali, ma non costituiscono più unità ben definite. Essi devono andare alla ricerca del sostegno dei votanti» [6]; Rosanvallon ritiene – con la formula “controdemocrazia” – di rilevare una crescente capacità di sorveglianza, da parte del corpo elettorale, «come uno dei pilastri fondanti di una cittadinanza più attiva e partecipata» [7]. Tutto bello, tutto molto consolante. Resta da appurare dove il duo degli autorevoli transalpini scorga le tracce di quanto affermato; preso atto che – semmai – il dato evidenziato da ogni analisi sul campo è una singolare simmetria - questa sì, postfordista – per cui, se la riproduzione del capitale ha sempre meno bisogno delle persone concrete, la legittimazione della politica sembra poter tranquillamente prescindere dal consenso di quelle stesse persone. In altre parole, la crisi dei partiti si iscrive sostanzialmente in una lobotomizzazione della democrazia; intesa non soltanto come insieme di regole per la selezione dei governanti ma – soprattutto – come processo di determinazione del consenso attraverso dinamiche agonistiche/antagonistiche. Processo che nella “democrazia dei Moderni” si traduceva nel principio di rappresentanza competitiva; avendo trovato la sua strumentazione operativa nell’organizzazione partitica, quale riproduzione/simbolizzazione delle contrapposizioni sociali. Quella “forma” che nel tempo è venuta assumendo connotazioni diverse (comitato elettorale, partito di massa, partito omnibus, eccetera); ma sempre mantenendo un certo equilibrio tra il funzionare come agenzia di socializzazione alla politica e le derive oligarchiche insite nell’intima natura aristocratica della delega (come avevano capito benissimo già James Madison e gli altri Padri Fondatori parlando di rappresentanza come “aristocrazia elettiva”). Questo equilibrio è quanto attualmente è andato perduto, con i partiti asserragliati nel Palazzo, indifferenti al consenso, e i cittadini sempre più estranei rispetto al solipsismo delle Istituzioni occupate manu militari. Insomma, la politica sta navigando tra scogli carichi di pericoli, con una forte propensione al naufragio. Tra l’estremo messaggio di Pierre Bourdieu, per cui «l’ultima rivoluzione politica, la rivoluzione contro il clero politico e contro l’usurpazione potenzialmente iscritta nella delega, resta ancora tutta da fare» [8] e le facili sirene della democrazia diretta; magari nelle sue rivisitazioni hi-tech dell’on line. Come ha scritto recentemente Gustavo Zagrebelsky, «si dovrebbe sapere che la democrazia diretta come regola è solo la via per il plebiscito. L’idea della sovranità del singolo, il quale versa la sua voce nel calderone informatico, è un’ingenuità, un inganno» [9]. E allora? Qui l’ultimo Revelli non ci è di grande aiuto, riproponendo come salvifica la carica rivitalizzante dei movimenti nell’auspicio che «sarà la forza di attrazione ‘dal basso’ a prevalere, innescando un’interlocuzione dinamica tra le forme di auto-organizzazione della società – alimentate dai new media – e le forme sempre più leggere della rappresentanza» (pag. 136). Anche in questo caso, tutto molto consolatorio, visto che due anni di esplosioni “indignate” - da Puerta del Sol a Zuccotti Park - hanno prodotto strategie di uscita dall’impasse epocale che premiano banche e gruppi finanziari, primi responsabili della catastrofe in corso, a fronte dell’inarrestabile liquidazione del Welfare State. Ma per capire la ragione di questo apparente paradosso (la forza dei movimenti che si trasforma nella loro assoluta insignificanza politica) bisognerebbe integrare/criticare il Revelli odierno con il Revelli d’annata; quello che, discutendo con Giorgio Cremaschi nel lontano 1998, poneva il problema se sussiste ancora “un punto archimedico” [10] in cui innestare il conflitto sociale come leva di cambiamento per trasformazioni collettive. Forse sta proprio qui la chiave per capire la crisi della forma partito; nello smarrimento della dimensione del conflitto, azzerata nella lunga stagione in cui imperavano le narrazioni stordenti delle fini della Storia. Visto che in tutto il loro più o meno onorato servizio, i partiti trovavano la loro identità come calco dei contrasti di fondo vigenti in una data epoca. L’essersi trasformati in una indistinguibile marmellata non è opera di qualche fenomeno chimico naturale, in cui il solido tende ad sciogliersi fino a raggiungere lo stato liquido. È la diretta conseguenza della cattura cognitiva di un personale di partito, reso sempre più mediocre e conformista da selezioni attraverso reiterati processi di cooptazione, che ha trovato (molto) conveniente e personalmente remunerativo credere nei principi della normalizzazione plutocratico/finanziaria. E che ha potuto farlo in assenza di controspinte alla differenziazione provenienti dal sociale. Una saldatura che non potrà essere spezzata in assenza di una rinnovata teoria del conflitto; forte di una visione che oltrepassi le contrapposizioni fasulle tra due dei manufatti più usurati della Modernità: lo Stato e il Mercato. Nel saggio di Revelli se ne intuisce un primo bandolo in termini di «riappropriazione del Comune» (pag. 21); la dimensione che non è “Pubblico” (le nomenklature che controllano le funzioni regolative) né “Privato” (i possessori del denaro). Ma molta tela è ancora da tessere al riguardo. Pierfranco Pellizzetti Come il nostro autore dichiara nella prefazione, che ovviamente è la pagina scritta per ultima, in conclusione del suo percorso intellettuale: «certo è che con questa ‘tempesta perfetta, nella quale le linee di crisi dei molteplici sottosistemi (economico, sociale, culturale, ambientale e naturalmente politico) si intrecciano e si sovrappongono, dovremo convivere a lungo» (pag. XII). Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino 2013 NOTE [1] A. Schlesinger Jr., “La grande occasione dell’America liberale”, MicroMega 3/90 [2] M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001 pag. 281 [3] M. Revelli, La Sinistra Sociale, Bollati Boringhieri, Torino1997 pag. 29 [4] M. Revelli, Le due Destre, Bollati Boringhieri, Torino1996 pag. 9 [5] R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006 pag. 359 [6] B. Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010 pag. 281 [7] P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012 pag. 215 [8] P. Bourdieu, Proposta politica, Castelvecchi, Roma 2005 pag. 93 [9] G. Zagrebelsky, “I valori della Costituzione” la Repubblica 16 novembre 2012 [10] G. Cremaschi e M. Revelli, Liberismo o libertà, Editori Riuniti, Roma 1998 pag. 116
|
|
|