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Le ali spezzate della ricerca |
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La spesa in ricerca scientifica non è un costo: bensì il migliore investimento possibile per le nuove generazioni. La ricerca di base deve essere finanziata con fondi pubblici. Perché nessun privato può permettersi di fare un investimento ad alto rischio che richiede un lunghissimo tempo di ritorno. L’attuale crisi economica è nata come crisi finanziaria. Ma si è presto trasformata in una crisi strutturale del modello di sviluppo occidentale. Per uscirne occorre ricostruire “una comunità scientifica europea”. Essa dovrà “pretendere che i bilanci degli Stati, risorse preziose dei cittadini, non siano sperperati per progetti di ricerca in cui la tecnologia è posta al servizio dell’interesse commerciale di pochi gruppi”. È quanto afferma la ricercatrice dell’Istituto italiano per gli studi filosofici Milena Cuccurullo, nel polemico pamphlet: “Le ali spezzate della ricerca” (La scuola di Pitagora editrice). Il libro delinea un nuovo ruolo dell’Italia e del Mezzogiorno nell’Europa della conoscenza. Per evitare una definitiva emarginazione, non più solo economica, Cuccurullo lancia un appassionato appello a una riscossa culturale: “Oggi uno Stato privo di una comunità di cultura e di ricerca pura è destinato a perdere sovranità e prestigio e a diventare periferia del mondo, da dove gli sarà sempre più difficile esercitare una funzione etica universale”. Qual è il nesso tra ricerca e sviluppo economico? Quale può essere il valore aggiunto della ricerca fondamentale per un Paese come l’Italia, in cui le piccole, medie e recentemente anche grandi imprese ad alto tasso tecnologico stanno scomparendo? Può l’Italia puntare solo sul terziario e il turismo lasciando da parte ogni altra velleità? Per rispondere va ripensato il ruolo dell’istruzione avanzata e della ricerca in una società post-industriale. Lo sviluppo economico, infatti, se non è accompagnato da uno sviluppo civile, genera imbarbarimento. Dunque, il primo obiettivo di un Paese è elevare la cultura in generale. Il fisico Francesco Sylos Labini, nella prefazione, evidenzia che la ricerca è un’infrastruttura fondamentale del Paese. È miope supporre che il miglior modo di raggiungere l’obiettivo della crescita sia di finanziare solo quei progetti in grado di portare ad applicazioni pratiche nell’immediato. Il finanziamento della ricerca fondamentale non è un lusso superfluo. Di cui fare a meno nei momenti di crisi. È piuttosto “l’unica via d’uscita dal tunnel della drammatica crisi economica, politica e anche civile in cui ci troviamo oggi”. Stati Uniti, Giappone e Cina hanno compreso che senza una ricerca di base e una creatività in patria anche la tecnologia s’impoverisce. Si è costretti a importare i modelli su cui impostare le innovazioni tecnologiche. L’Europa, che è da sempre un Paese ideatore, rischia di trasformarsi in un mero Paese esecutore di idee germogliate altrove. Perciò, avverte Cuccurullo, “Il progresso tecnologico senza progresso politico e civile finirà per disgregare la fragile unità europea e trasformarne l’identità, da Paese cultore delle scienze e della filosofia a piattaforma tecnologica delle multinazionali”. Contro tanti acritici tecno-entusiasti, va riconosciuto all’autrice il merito di aver ben presente i pericoli dello specialismo e del tecnicismo. L’Unione europea spende poco nella ricerca scientifica e tecnologica, circa 1,84% del Pil comunitario. Nel Sud-Est asiatico, invece, sorgono intere città della scienza e si tende alla concentrazione degli scienziati “rubati” alle università più prestigiose del mondo. La Cina per numero di studenti universitari (25 milioni) è già prima assoluta nel mondo. Per numero di ricercatori (1,4 milioni) ha eguagliato gli Stati Uniti e superato l’intera Unione Europea. E nella produttività scientifica c’è stato un vero e proprio boom. Poiché nel decennio 1998-2008 il numero di articoli scritti da scienziati cinesi su riviste scientifiche è aumentato del 560%. Mentre quello degli articoli firmati da scienziati del resto del mondo è aumentato solo del 30%. Eclatante il caso dell’Istituto Ebri di Rita Levi Montalcini, che stava per chiudere a causa di mancanza di fondi in Italia: è stato finanziato dalla Cina con circa 2 milioni di euro per un progetto che impegnerà ricercatori italiani e cinesi per cinque anni. A quale destino andrà incontro l’Europa se sceglierà di sacrificare la scienza pura? Con la “strategia di Lisbona” l’Unione Europea ha “preferito lasciare alla cecità del mercato il potere di decidere sulla validità dei progetti dei ricercatori, con conseguenze assai gravi per la libertà di ricerca e per i suoi stessi risultati”. Una peculiarità europea, ben evidenziata dal premio Nobel Ilya Prigogine, è “l’interesse filosofico per la scienza”. L’opera di grandi fisici, da Mach a Boltzmann, da Einstein a Planck, è stata sorretta da visioni filosofiche. Anzi, afferma Prigogine, “al culmine della creazione scientifica c’è l’unione della scienza con la filosofia e con le stesse arti”. Puntare tutto sullo sviluppo della tecnologia, affidare alle imprese industriali e al capitale finanziario la guida della ricerca scientifica vuol dire infilarsi in un vicolo cieco, rimarca Cuccurullo. Ciò aggraverà il fenomeno della fuga di cervelli dal nostro Paese: nel 2005 sono stati registrati 12.000 ricercatori italiani all’estero, e di questi 9.000 si trovano negli Stati Uniti. Nel 2007 il concorso bandito dal Cnr francese per le classi di fisica, matematica e astronomia è stato vinto per il 35% da italiani, per il 70% se consideriamo solo fisica teorica. Non manca l’intelligenza nelle nostre università. Il fallimento in Italia della politica europea per la ricerca sembra legato alla cattiva gestione dei fondi da parte dei governi italiani e del settore imprenditoriale: “Una cattiva gestione prevista proprio dalla strategia di Lisbona, volta a erogare denaro all’industria per ricerche che poi non vengono fatte”. La distruzione della capacità produttiva e creativa dell’industria italiana ha inizio negli anni Sessanta, con la morte di Enrico Mattei e di Adriano Olivetti. Gli stessi anni in cui, per motivi non ancora chiari, venivano destituiti due importanti dirigenti: Felice Ippolito, segretario generale Cnen e Domenico Marotta, direttore dell’Istituto superiore di sanità. In quel momento, ha scritto lo storico della scienza Enrico Bellone, si arresta definitivamente lo sviluppo industriale basato sugli avanzamenti della ricerca scientifica. La “gestione manageriale” delle aziende pubbliche, negli anni Novanta, a seguito delle privatizzazioni, ha portato a compimento il processo di annientamento della nostra economia. Il sociologo Luciano Gallino ha denunciato i modelli organizzativi che puntavano a ottenere elevati tassi di produttività da forza lavoro con istruzione bassa. Senza investimenti in ricerca e sviluppo. Privatizzazioni e smembramenti di grandi gruppi industriali hanno concorso “ad avvicinare l’Italia allo stato di colonia industriale”. Per il Mezzogiorno, in particolare, non c’è stato scampo. L’enorme flusso di denaro destinato a risanare l’annoso divario economico tra il Nord e il Sud d’Italia ha subito negli anni una continua deviazione verso altri scopi. E, paradossalmente, anche verso i più influenti gruppi industriali e finanziari settentrionali. Proprio coloro che sarebbero stati, insieme alle organizzazioni criminali meridionali, i principali beneficiari dei finanziamenti statali riservati allo sviluppo del Mezzogiorno. Tramite l’intervento straordinario o le leggi speciali e i fondi europei. La situazione si aggrava con il prevalere, nell’università e negli enti pubblici di ricerca, dell’imperativo professionalizzante a scapito della libertà della ricerca scientifica. Tale scelta pone il problema di individuare un altro luogo in cui sia possibile continuare a indagare le questioni teoriche di carattere generale. Riflessioni cioè che implicano un dialogo aperto tra le scienze, libero dalle logiche burocratiche, affaristiche e di carriera. Esse appaiono sempre più decisive per il progresso scientifico e per l’innovazione dei paradigmi culturali. Cuccurullo solleva qui il caso del meritorio Istituto italiano per gli studi filosofici, fondato a Napoli dall’avvocato Gerardo Marotta e divenuto punto di riferimento internazionale per il dialogo tra scienziati e umanisti. Il superamento della frammentazione delle competenze e della separazione delle scienze in compartimenti non comunicanti tra loro non poteva avvenire, secondo il fisico napoletano Eduardo Caianiello, se non con l’aiuto della filosofia e delle facoltà umanistiche. A Napoli, presso l’Istituto di studi filosofici, diretto dall’antichista Giovanni Pugliese Carratelli, con la presidenza onoraria del premio Nobel Ilya Prigogine, si pongono le basi, per la prima volta, del connubio tra scienza e umanesimo. Il progetto non ha trovato sostegno adeguato nella politica napoletana. Troppo condizionata dalla speculazione e dal malaffare. Intanto, i governi che si susseguono tacciono. L’imperativo categorico della credibilità finanziaria e del ripristino della reputazione delle banche continua soppiantare “la speranza di un risveglio che solo la cultura attiva e seriamente esercitata, cioè la potenza creativa del pensiero libero e del sapere autentico, può accendere”. Pasquale Rotunno |
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