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La sentenza della Corte Suprema indiana del primo aprile scorso contro il colosso farmaceutico Novartis ha inasprito lo scontro tra le multinazionali farmaceutiche e il governo indiano, e ha riacceso il dibattito sul diritto alla salute da un lato e la protezione della proprietà intellettuale, anche per finanziare la ricerca, dall’altro. Da anni l’India si è decisamente schierata dalla parte del diritto alla salute (e della emergente industria farmaceutica locale), guadagnandosi la reputazione di “farmacia dei poveri” grazie a una legislazione che ha permesso la massiccia commercializzazione da parte delle aziende indiane di farmaci “generici” a prezzi enormemente inferiori rispetto agli equivalenti “griffati”. La sentenza del primo aprile sembra confermare questa tendenza. La Corte Suprema di Nuova Delhi ha respinto un ricorso presentato dal colosso svizzero Novartis relativo al brevetto del Glivec, un medicinale anti-cancro molto efficacecontro una rara forma di leucemia, attualmente “copiato” dalle aziende farmaceutiche indiane e venduto a un prezzo di gran lunga inferiore. Secondo i giudici, il Glivec non sarebbe una nuova “invenzione”, ma solo la riformulazione dell’imatinib, una molecola il cui brevetto è scaduto. Di conseguenza, la richiesta di brevetto sarebbe solo un tentativo di prolungare artificiosamente – tramite alcune modifiche – la copertura del brevetto (che ha durata ventennale) di un vecchio prodotto. Il cosiddetto “evergreening”. Una pratica che la legge indiana non consente, al contrario per esempio di quella europea e statunitense. La sentenza è stata salutata come una vittoria storica dalle associazioni umanitarie, mentre le aziende farmaceutiche hanno messo in guardia sul rischio di mettere in crisi la ricerca stessa. “È un enorme sollievo per i milioni di pazienti e medici nei Paesi in via di sviluppo che dipendono dai farmaci a basso costo provenienti dall’India”, hanno commentatodall’organizzazione Medici Senza Frontiere (Msf). Un mese di trattamento con il Glivec, infatti, costa circa 1.700 dollari, mentre la “copia” distribuita dai gruppi indiani Cipla e Rambaxy è venduta a 175 dollari. Un vantaggio soprattutto per i Paesi del Terzo mondo, dato che l’India, insieme al Brasile, è uno dei maggiori esportatori di farmaci generici. Secondo la Novartis, però, la decisione dei giudici indiani “scoraggia la ricerca di farmaci innovativi”, e rischia di “ostacolare i progressi medici nelle patologie per le quali non sono ancora disponibili opzioni terapeutiche efficaci”. Entrando nel merito della sentenza, dal colosso farmaceutico difendono la legittimità del proprio brevetto, sostenendo che il Glivec rappresenti “un trattamento rivoluzionario” e non “il miglioramento di un farmaco” come sostenuto dalla Corte di Nuova Delhi. La questione in realtà va al di là della battaglia legale tra Novartis e il governo indiano per il brevetto del Glivec, cominciata nel2006. Fin dall’inizio, infatti, l’obiettivo della multinazionale è stato quello di mettere in discussione la legge indiana sui brevetti (Patents Act, 2005), sostenendo che fosse contro le regole stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). In particolare la Sezione 3(d) che impedisce alle case farmaceutiche di ottenere brevetti sulle modifiche a farmaci già esistenti, al fine di far perdurare all’infinito i propri monopoli. Dopo aver perso la causa nel 2007, la Novartis ha fatto ricorso alla Corte Suprema, che con la sentenza del primo aprile ha respinto definitivamente tutte le richieste della multinazionale. “Si tratta del segnale più forte possibile per la Novartis e le altre multinazionali farmaceutiche che devono desistere dall’attaccare la legge indiana dei brevetti”, ha dichiarato il presidente internazionale di Msf, Unni Karunakara. “Tutti gli attacchi della Novartis alla Sezione 3(d), uno degli elementi nella legge dei brevetti indiana che proteggono lasalute pubblica, hanno fallito”, gli ha fatto eco Leena Menghaney, responsabile della Campagna per l’Accesso ai Farmaci di Msf in India, che ha aggiunto: “Gli uffici per i brevetti in India dovranno considerare questo come un chiaro segnale che la legge deve essere applicata rigorosamente e che le domande di brevetto prive di un reale fondamento devono essere respinte”. La lotta indiana contro i brevetti Grazie alla legislazione indiana sui brevetti, che dal 1970 permetteva di produrre in India le versioni generiche dei farmaci ancora protetti da brevetto all’estero, l’industria farmaceutica indiana è diventata – insieme a quella brasiliana – la maggiore produttrice di farmaci generici. Il che ha portato a notevoli benefici specialmente per i Paesi più poveri del mondo, dove i costi di alcune terapie sono stati letteralmente abbattuti. Secondo le stime di Medici senza Frontiere, ad esempio, grazie agli antiretrovirali indiani e alla decisione del governo brasiliano di produrrefarmaci generici contro l’Aids, dal 2000 ad oggi il prezzo delle medicine contro l’Hiv è calato del 99%: se nel 2000 curare un malato di Aids con i medicinali “di marca” costava 10mila dollari l’anno, ora il costo delle stesse cure con i generici prodotti in India è di 120 dollari l’anno. Tuttavia nel 2005 – nonostante una strenua battaglia di opposizione capeggiata da Nuova Delhi in ambito internazionale – l’India è stata costretta a modificare la propria legge sui brevetti per rispettare l’accordo Trips (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Oms). Un accordo che gli indiani hanno recepito, ma alle loro condizioni. Inserendo ad esempio la Sezione 3(d), che impedisce alle case farmaceutiche di ottenere brevetti sulle modifiche a farmaci già esistenti. La recente sentenza contro la Novartis è solo l’ultima di una serie di sconfitte analoghe subite dalle multinazionali farmaceutiche in India.Nei mesi scorsi i giudici indiani hanno revocato il brevetto su diversi farmaci dei colossi Pfizer e Roche (come l’antitumorale Tarceva che viene “copiato” dall’indiana Cipla), intaccando di fatto il loro monopolio. Da segnalare la vicenda del Nexavar, un costoso farmaco contro il tumore ai reni e al fegato prodotto dalla Bayer. Qualche mese fa, la Corte di appello indiana per i brevetti (Ipab) ha dato il via libera per la produzione generica del Nexavar da parte dell’indiana Natco Pharma, nonostante il farmaco fosse ancora sotto brevetto. Una decisione motivata dal fatto che il farmaco “non era accessibile alla maggior parte dei malati”. Di fatto i giudici indiani hanno obbligato la Bayer a concedere la licenza per produrre il farmaco in cambio del 6% di royalties. Si tratta del primo caso di un’azienda che ha ricevuto una “licenza obbligatoria per produrre un farmaco sotto brevetto”. La Bayer non ha apprezzato la sentenza e ha già fatto ricorso. La difesa dellemultinazionali La sentenza della Corte Suprema indiana che ha negato il brevetto al Glivec, il farmaco antitumorale prodotto dalla Novartis, “deteriora l’innovazione e uccide la ricerca”. Lo sostiene il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, che riassume così la posizione delle società farmaceutiche mondiali, secondo cui gli alti ricavi provenienti dai brevetti servono per finanziare la ricerca di nuovi farmaci. Anche il presidente internazionale di Medici senza Frontiere, Unni Karunakara, riconosce che “al momento l’innovazione medica è finanziata attraverso i prezzi elevati dei farmaci coperti da brevetti monopolistici”. Tuttavia sottolinea come questo processo avvenga “a spese dei pazienti e dei governi dei Paesi in via di sviluppo che non possono permettersi quei prezzi”. “Invece di cercare di abusare del sistema dei brevetti modificando le regole e rivendicando sempre più brevetti su vecchi farmaci – sostiene Karunakara – l’industria farmaceutica dovrebbeconcentrarsi sulla vera innovazione, e i governi dovrebbero sviluppare delle regole che consentano lo sviluppo di farmaci resi subito disponibili a prezzi accessibili”. Il fatto che spesso le case farmaceutiche utilizzino delle “scappatoie” per prolungare artificialmente i loro vecchi brevetti è in parte confermato implicitamente dallo stesso Scaccabarozzi, che sottolinea come gli attuali termini di scadenza di un brevetto siano insufficienti a sopportare i “costi ingenti per sviluppare un farmaco”. “Perché una molecola passi dalla scoperta, che è quando si deposita il brevetto, al commercio – spiega il presidente di Farmindustria – passano dieci anni. La copertura dura venti anni, ma non dall’ingresso in commercio, quindi è già dimezzata. Ridurla ulteriormente vuol dire uccidere la ricerca”. E anche vero che, di fatto, le case farmaceutiche sembrano fare più affidamento sulle vecchie “ricette” che sull’innovazione. Secondo quanto scritto da Marcia Angell, ex direttrice del NewEngland Journal of Medicine, nel suo “Farma&Co”, le medicine davvero nuove ed efficaci messe in produzione non superano il 15% del totale di quelle immesse sul mercato. Ferdinando Calda
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