I tecnocrati europei sono pronti a tutto pur di soddisfare gli Usa
 











L’Europa ha bisogno di una nuova classe politica, di un élite in grado di invertire la rotta che sta portando il Vecchio Continente verso il baratro dell’autodistruzione e dell’asservimento al mercato statunitense. Il presupposto deve essere di natura politica e che sia in grado di avere la meglio sull’economia: le imprese avranno libertà di manovra nei loro settori specifici, ma non dovranno dettare legge alla politica. Insomma un mutamento epocale e questa nuova Europa deve nascere subito. Prima che sia troppo tardi. A doversi svegliare sono i popoli europei sfiancati dalla crisi etica ed economica che sta dissanguando da anni nella mente e nel corpo intere generazioni di giovani e meno giovani. I dati che abbiamo davanti a noi sul futuro della nostra amata Europa sono allarmanti, un vero bollettino di guerra. In questi giorni sono stati gli stessi imprenditori europei ad avvertire che entro dieci anni la Cina sarà più forte dell’Europa come sievince da una conferenza che ha fatto il punto sui rischi futuri. Tra dieci anni la Cina sarà allo stesso livello o persino davanti all’Europa per quanto riguarda l’innovazione tecnologica. E’ quel che pensano due terzi dei leader dell’industria europea riuniti in una maxi conferenza a Bruxelles. Dal canto Mark Spelman, direttore della società Accenture, ha spiegato che ha sentito la necessità di organizzare il sondaggio. “Per prima cosa – ha osservato Spelman – bisogna riconoscere che l’Europa non è omogenea. L’Europa ha diversi livelli di competitività. La questione dei costi è importante ma c’è anche il fattore qualità. Penso che l’Europa dovrebbe puntare sui suoi punti di forza, non si deve parlare solo di costi, ma anche di qualità e di marchi, è una catena integrata”.  Se la qualità dei prodotti non può essere tagliata, l’unico punto sui cui si può risparmiare restano i costi per il personale. Una ricetta respinta da Patrick Itschert, vice segretario generale dellafederazione europea dei sindacati: “Nulla contro la competitività. Ma il nostro obiettivo è di non portare gli europei agli stipendi e agli standard di vita dei cinesi”. Per rilanciare l’Europa, gli imprenditori chiedono più investimenti pubblici e meno tasse su ricerca e sviluppo, fondamentale sarà poi ridurre i costi per l’energia. Ma non tutti sembrano voler ascoltare i consigli degli esperti del settore. E così dalle agenzie di stampa emerge che il premier ellenico Antonis Samaras e il suo omologo cinese Li Keqiang: si sono visti per fare affari, o meglio è Pechino che fa man bassa dei “gioielli di famiglia” del Paese ellenico. Accompagnato da una folta schiera di ministri e imprenditori, il premier greco ha incontrato il suo omologo cinese nel corso di una visita di quattro giorni che si è conclusa proprio ieri e che lo ha portato al cospetto del presidente della Repubblica Popolare, Xi Jinping. Oltre a chiudere numerosi accordi commerciali, l’obiettivo del viaggio è quello diattrarre investimenti nel suo Paese, martoriato da 6 anni di recessione. Tra le condizioni del salvataggio imposte dalla troika dell’usura internazionale c’era infatti un ingente piano di privatizzazioni e ora Atene deve trovare compratori. Il principale porto della Grecia, quello del Pireo, già parla cinese: nel 2010 è stato svenduto alla Cosco, colosso mondiale delle spedizioni di proprietà dello Stato cinese. Se non altro Samaras è giunto in un momento di grande espansione del gigante asiatico, in cui gli investimenti delle aziende cinesi all’estero nei prossimi anni ammonteranno addirittura a 500 miliardi di euro, mentre l’Unione europea e l’Eurozona vivono una crisi epocale, tale da finire nel baratro. Purtroppo quelli che sono pronti a svendere le ricchezze siano noi europei grazie ai tecnocrati dell’usura internazionale che ci hanno ridotti con l’acqua alla gola per mancanza di liquidità e portato alla recessione. Andrea Perrone
Egitto. “La crisi peggiore dagli anni‘30”
L’Egitto sta attraversando la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Lo sostengono due “pezzi grossi” dell’economia egiziana intervistati dal Guardian: l’ex ministro delle Finanze Samir Radwan, in carica nei mesi immediatamente successivi alla caduta di Mubarak, e Galal Amin, scrittore e professore di economia all’American University de Il Cairo.
Il quadro che descrivono è drammatico: il crollo degli investimenti stranieri e dei introiti del turismo, la disoccupazione dilagante, la svalutazione galoppante, il prezzo dei beni di prima necessità schizzato alle stelle e circa la metà della popolazione che si aggira pericolosamente intorno alla soglia di povertà, senza avere neanche la protezione dei sussidi che avevano salvato le classi deboli negli anni passati.
E la tensione sociale rischia di esplodere da un momento all’altro. Anzi, sostiene Radwan, è già esplosa. Nel 2012 le rapine sono cresciute del 350%. “Le elite stanno lì sedute a direche sta arrivando la rivoluzione della fame”, spiega l’ex ministro. “Che vuole dire sta arrivando? Stanno aspettando una violenta e sanguinosa ‘presa della Bastiglia’? È già qui”.
Dalla caduta di Hosni Mubarak nel 2011, l’Egitto ha assistito a una drastica diminuzione sia degli investimenti esterni che dei ricchi introiti del turismo, un calo del 3% della crescita, seguiti da una riduzione delle riserve di valuta estera. Per due anni la Banca centrale egiziana ha usato le proprie riserve di moneta estera per arrestare la perdita di valore della sterlina egiziana. Ma, una volta consumato il 60% delle proprie riserve, lo scorso inverno la banca ha dovuto abbandonare questa tattica. Questo ha portato a una ancor più rapida svalutazione della moneta locale, che da dicembre ha perso il 12% del suo valore sul dollaro. Comprare merci dall’estero è diventato ancora più costoso con conseguenze disastrose per un Paese che importa il 60% del grano consumato. Inoltre spesso i contadini egizianiimportano fertilizzanti, mangimi e carburante. Il conseguente aumento dei generi alimentari sta avendo effetti drammatici su i ceti più deboli.
“Stiamo parlando di quasi la metà della popolazione che vive in stato di povertà”, sottolinea Radwan. Attualmente, secondo i dati del governo de Il Cairo, oltre il 25% degli egiziani vive sotto la soglia di povertà, mentre quasi il 24% è appena sopra di essa. Questi ultimi, secondo l’economista, rischiano di cadere sotto la soglia di povertà con “qualsiasi scossa [economica], come l’inflazione”. “Sono alle prese con una grossa crisi”, commenta l’inviato dell’Unione europea James Moran, sottolineando come le riserve di valuta estera dell’Egitto siano passate dai 36 miliardi di dollari di tre anni fa a 14,4 miliardi dello scorso mese. “Questo consente ancora tre mesi di copertura. Cosa che, in un’economia dipendente dalle importazioni, è abbastanza pericolosa”.
Secondo Amin, “senza ombra di dubbio”, questa è la più grave crisi economicadell’Egitto “dagli anni ‘30”. Con l’aggravante che oggi “nessuno si preoccupa dei poveri”. Sia Amin che Radwan, sostengono infatti che durante simili crisi nei tardi anni ’60, a metà dei ’70 e alla fine degli ’80 (ovvero sotto Nasser, Sadat e Mubarak ndr), i poveri egiziani erano tutelati in qualche modo dai sussidi statali, dagli aiuti esteri, da una disoccupazione relativamente bassa o dalle rimesse degli emigrati nei Paesi del Golfo. Ma ora un giovane egiziano su quattro è senza lavoro, le rimesse sono basse e c’è una carenza di beni sussidiati. Come ad esempio benzina e gas, che il governo fa sempre più fatica a importare, causando nelle scorse settimane lunghe file ai distributori.
Da parte sua, per il momento l’esecutivo del presidente Mohamed Morsi sta cercando di correre ai ripari con misure a breve termine. Come l’aumento delle tasse sui beni di importazione non di prima necessità (come gamberetti e noci) o la chiusura dei negozi presto la sera per risparmiare elettricità.Oppure l’accettazione di aiuti di emergenza dai Paesi vicini (tra cui 5 miliardi dal Qatar e altri Paesi del Golfo, e una fornitura a interessi zero di carburante dalla Libia), che però rischiano di rendere l’Egitto particolarmente vulnerabile alle ingerenze esterne. Ferdinando Calda









   
 



 
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