Il presidente Anna Maria Tarantola, in una recente intervista, spinge per migliorare la qualità dei programmi diffusi dalla Rai. Non sempre, infatti, è facile distinguere tra offerta dei canali privati e quella di servizio pubblico. L’omologazione dei programmi televisivi verso il basso è un rischio che le televisioni pubbliche corrono dappertutto in Europa. Tanto da far rimettere in discussione il concetto stesso di servizio pubblico televisivo. Un tempo dato per evidente. Eppure mai davvero precisato sul piano teorico. Bensì solo “retrospettivamente”, afferma lo studioso Jérôme Bourdon nel saggio “L’idea di servizio pubblico nella tv europea” (compreso nel libro curato da Aldo Grasso “Storie e culture della televisione italiana”, Mondadori editore). Il modello di servizio pubblico ha alcune caratteristiche principali: accessibilità universale (il suo segnale deve raggiungere chiunque); etica inclusiva (la garanzia di una programmazionevaria, che abbini intrattenimento, informazione, educazione, cultura); mandato generalista; rispetto di diversità e pluralismo; propositi non commerciali (non cercare solo di massimizzare gli ascolti e non cercare di soddisfare solo la fascia di pubblico appetibile per gli investimenti pubblicitari). La tv pubblica dovrebbe inoltre rappresentare uno spazio mediale che permetta ai cittadini/spettatori, di formarsi un’opinione politica e compiere scelte. Si tratta di criteri meramente astratti. Sul piano storico, denuncia Bourdon, non reggono. Etica inclusiva e propositi non commerciali erano presenti alle origini. Il rispetto per diversità e pluralismo, insieme all’attenzione per le minoranze, “sono stati del tutto assenti nella storia più remota del servizio pubblico”. Anzi, questo modello televisivo doveva unificare idealmente la nazione in cui si sviluppava. E diffondere la cultura di tale nazione oltre i suoi confini, a volte anche con intento velatamente neocolonialista. Quantoal ruolo della politica, esso è il vero tallone d’Achille del servizio pubblico. Perché la prossimità allo Stato tipica di questo modello televisivo “non è sempre stata compatibile con il pluralismo”. Anzi, in molti casi la vicinanza allo Stato come garanzia dell’interesse nazionale si è trasformata in eccessiva prossimità ai partiti di governo. Il servizio pubblico è apparso “fattore di rischio, e non di protezione, del pluralismo politico”. Nel 1922, quando la Bbc fu fondata da un gruppo di compagnie che vendevano ricevitori senza fili, si pensava che il maggior profitto del bradcasting sarebbe derivato dalla vendita degli apparecchi riceventi. Il Post Office cominciò a far pagare una tassa di licenza (canone), metà della quale andava alla Bbc. Fu il comitato Sykes, nel 1923, a definire per primo il broadcasting come un fattore di “pubblica utilità”, come un servizio nazionale che doveva essere sviluppato “nell’interesse pubblico”. La nozione di un’organizzazione no-profit, cheaveva un monopolio pubblico e trasmetteva programmi dagli alti standard culturali, è nata in quel momento; e può essere considerata la prima vera definizione di “servizio pubblico”. Nell’Europa meridionale, la televisione pubblica è diventata troppo spesso uno strumento nelle mani dei partiti politici. In quasi tutte le reti di servizio pubblico (eccetto la Bbc e quelle scandinave), la pubblicità è stata presto o tardi introdotta: in Germania nel 1956, in Italia nel 1957, in Francia nel 1968. C’è meno pubblicità nel nord Europa, dove la trasmissione di spot rimane più contenuta, ma il canone è più alto. Le debolezze del servizio pubblico sono state utilizzate dai suoi oppositori come terreno di scontro. La cattiva gestione del suo management e il potere dei suoi rappresentanti sindacali sono stati condannati senza sosta. Sebbene queste non siano caratteristiche esclusive del servizio pubblico e siano state spesso sovradimensionate. Le lobby commerciali hanno sempre tentato diottenere una fetta più grande della torta degli spazi pubblicitari; mentre il monopolio dell’informazione televisiva ha reso il servizio pubblico bersaglio naturale delle critiche e degli attacchi dei partiti politici. Nel 1974 fu conferita più autonomia ai canali Rai, “la pratica della lottizzazione divenne una procedura semiufficiale”, rimarca Bourdon. L’Unione Europea ha spinto per una deregulation; che doveva servire a rafforzare le industrie televisive nazionali. Paradossalmente però, “Hollywood e i canali tv privati sono emersi come i principali vincitori di questa battaglia”. Nondimeno, il servizio pubblico televisivo conserva una quota considerevole degli ascolti. Per farlo ha pagato un prezzo molto alto. Le news tendono a spettacolarizzarsi; ai documentari sono stati negati spazi più pregiati, come la prima serata; l’intrattenimento è cresciuto in modo esponenziale. Complessivamente, “le differenze tra servizio pubblico e televisione commerciale sono diventate sempre piùmarginali e sottili”. Ha ancora senso il servizio pubblico televisivo? Sì, risponde Bourdon, perché il mercato televisivo tende a ridurre le possibilità di scelta dello spettatore a poche opzioni. E sfrutta nel modo peggiore i cambiamenti tecnologici per rinforzare le disuguaglianze (tra le imprese e tra i consumatori). Al contrario, il servizio pubblico può soddisfare un’ampia gamma di gusti attraverso vari generi, piuttosto che soddisfare i massimi profitti. L’ideale del servizio pubblico non è statalista. Rimanda al concetto habermasiano di “sfera pubblica”: distinta sia dallo Stato che dal mercato. Partendo da Habermas, si può far risalire l’ispirazione del concetto di “servizio pubblico” fino agli ideali dell’illuminismo: all’educazione come strumento per incoraggiare il genere umano a ragionare autonomamente, senza essere indirizzati da qualcun altro, come diceva Kant nel 1784. Alcuni considerano il modello di servizio pubblico sempre più irrilevante in un mercato più ampiodi rappresentazioni e idee. Emergono nuove forme di cultura e democrazia. Incentrate su generi diversi dal giornalismo colto e dai programmi culturali favoriti dal servizio pubblico; e meno ispirate da un’unica cultura nazionale omogenea. Si teorizza ormai una “cittadinanza fai da te”. Dove ciascuno tende a costruirsi da sé un’identità a partire da scelte, percorsi, opportunità disponibili nella “semio-sfera e nella media-sfera”. Sfortunatamente, osserva Bourdon, “è difficile collegare questa idea libertaria dell’individuo postmoderno alle pratiche di consumo dei media, laddove l’aggressiva tv commerciale e un uso crescente di internet perpetuano vecchie disuguaglianze di accesso e consumo e rinforzano il dominio di generi che possono solo a fatica essere etichettati come portatori di libertà di scelta” (come i talk show, i reality, le soap opera, e anche la pornografia). I sostenitori del servizio pubblico possono ancora difendere un’istituzione viva e relativamente forte.Sebbene siano tutti d’accordo sul fatto che la fortezza sia “sotto assedio, e sempre più impegnata a scimmiottare i suoi nemici”. Eppure, se la democrazia significa ancora che i cittadini debbano essere connessi a una qualche “sfera pubblica” attraverso i media generalisti, allora “è difficile, pur consapevoli di tutte le sue debolezze, mettere del tutto da parte il modello del servizio pubblico”. La sfida principale è quella del finanziamento: il servizio pubblico richiede risorse adeguate per raggiungere la sua ampia audience. Il servizio pubblico può non essere lo strumento migliore per realizzare gli obiettivi di cultura sociale. Ma complessivamente, conclude Bourdon, “rimane una soluzione migliore di quella proposta dai canali commerciali con la loro offerta di infotainment e gossip”. Il dibattito in vista del rinnovo del contratto di servizio tra Rai e Stato dovrebbe partire da qui con il coinvolgimento degli utenti. Pasquale Rotunno
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