Non solo Casta: i precari dell’editoria
 











Gli operai delle tipografie settecentesche a Milano e a Torino furono tra le prime professioni ad organizzarsi nelle società di mutuo soccorso. Erano dotati di una certa istruzione, si racconta, si ritrovavano nello stesso spazio lavorativo, era facile ritrovarsi anche per avanzare richieste ai datori di lavoro e attutire i danni di un’attività logorante. Queste società di mutuo soccorso sviluppavano interventi assistenziali e solidaristici di cui i lavoratori avevano bisogno nei loro luoghi di lavoro. Avevano un carattere interclassista, coinvolgevano operai, artigiani e una parte della borghesia cittadina. Nel corso di una generazione, o poco più, diedero vita ai primi sindacati di categoria. Nel 1848, ad esempio, venne fondata la Pia unione dei legatori di libri. A Torino era la più importante società dei compositori. I soci versavano una quota utile per il sussidio dei disoccupati e dei malati. Questi soldi servivano anche alla diffusionedell’arte tipografica (praticamente i corsi di formazione). Questa forma di sindacato autogestito serviva a negoziare i prezzi dei lavori con i padroni e ad organizzare il conflitto in caso di dumping o licenziamenti.
Fare fronte comune
Questa storia viene raccontata nell’inchiesta “editoria invisibile” realizzata dall’Ires-Emilia Romagna, Slc-Cgil, la rete dei redattori precari e dal sindacato dei traduttori editoriali Strade. Non è estranea nemmeno ad un’altra inchiesta, quella sulle tariffe per le traduzioni in diritto d’autore, curata da Marina Rullo per la rete dei traduttori letterari Biblit. In entrambe si parla della necessità di tornare ad uno “spirito solidale”, al “fare fronte comune” in un lavoro solitario e frammentato. Un obiettivo che stenta ancora ad affermarsi anche perché i lavoratori dell’editoria non hanno fiducia nel sindacalismo e nell’associazionismo tradizionale. Le condizioni materiali, e la riscoperta della cultura e della storia del mutualismo del XIXsecolo, hanno iniziato a smuovere le acque in un mondo dove si lavora tantissimo guadagnando pochissimo. Tra questi lavoratori c’è chi ricorda il 1848 e cerca di organizzarsi. Il nuovo mutualismo non è un’assicurazione privata e non sostituisce il welfare pubblico. Al contrario mostra una strada universale, rivolta alla tutela di tutti i cittadini, indipendentemente dal contratto di lavoro che possiedono.
Il lavoro editoriale
Oggi il lavoro editoriale non è solo quello tipografico. È una mescolanza di attività culturale, imprenditoriale, passione e sogno, precariato. Comprende le attività legate alle commesse e alle acquisizioni, poi l’editing, l’index making, la gestione diritti d’autore. C’è la composizione, il design e il layout, la stampa e il trasporto di un libro e poi la vendita e il marketing. Elementi importanti sono la distribuzione (adempimento ordini, spedizione, gestione magazzino) e la gestione finanziaria. L’insieme di queste fasi processuali, che compongono illavoro di una casa editrice, spesso viene svolto dalle stesse persone, quando si tratta dei piccoli imprenditori. Nell’inchiesta sull’«editoria invisibile» emerge un aspetto ricorrente del lavoro contemporaneo: sempre più spesso i singoli lavoratori (traduttori, editor o gli stessi autori) svolgono più mansioni: non solo rivedono un libro, ma si occupano del marketing; acquisiscono diritti per contatti personali e lo “piazzano” ad un editore. Poi lo traducono anche. E così via. Lo stesso soggetto svolge un lavoro internalizzato ed esternalizzato, allo stesso tempo. La trasversalità delle competenze, e la capacità di ricoprire più ruoli, rappresentano la peculiarità del lavoro indipendente.
La camicia di forza
Nell’inchiesta “editoria invisibile”, realizzata su un campione composta da 1073 persone, questa difficoltà viene addebitata ad una motivazione soggettiva. I freelance, i precari, le lavoratrici autonomi che lavorano in maggioranza con la ritenuta d’acconto o un contrattodi collaborazione, e poi anche con la partita Iva, hanno interiorizzata quella che Sergio Bologna definisce l’”ideologia del professionalismo”.
La sua prima caratteristica è l’individualismo. Questa è la principale motivazione che porta a scegliere di lavorare in editoria. Per gli intervistati, da 1 a 10, il proprio lavoro è “un modo per essere socialmente utile”, per 7 su 10 è invece un “mezzo per realizzare me stesso”. Solo che il lavoro editoriale non garantisce affatto la propria realizzazione, tanto meno un riconoscimento sociale. C’è chi riesce (ancora) a farlo per rispondere ad una necessità economica, cioè guadagna per vivere, ma c’è anche chi – prima della “soglia” di 40 anni – è costretto a lasciare il lavoro a cui ha dedicato la propria vita. Il reddito non è “adeguato per condurre una vita dignitosa” e, con l’età, i bisogni cambiano e si deve cercare qualcosa di più sostanzioso. A 40 anni dunque si cambia lavoro, passando da quello “creativo”, già in sé è pocoremunerativo e soddisfacente, ad altre forme di prestazione, altrettanto povere. L’86% dei lavoratori afferma di non vedere nessuna prospettiva di sviluppo di carriera.
Costretti ad un sogno
Nella mentalità dei lavoratori dell’editoria, come delle professioni che sono maturate nel campo del lavoro autonomo o indipendente, emerge un secondo elemento: la frustrazione delle aspirazioni personali, che non sono unicamente quelle di fare un “lavoro creativo”, ma fare un lavoro che la persona desidera fare. “Per inseguire un sogno” dice un’intervistata “i precari dell’editoria sono spesso costretti ad accettare condizioni inaccettabili”. Il sogno e la costrizione, due elementi antitetici che convivono in un lavoro che non garantisce un reddito e non assicura una pensione. Al punto che bisogna farne molti contemporaneamente e, spesso, accettare di cambiarlo. Perché non ci sono commesse, gli editori dicono di stringere la cinghia e tagliano sui collaboratori. È quello che nei due anni dicrisi hanno sperimentato buona parte dei lavoratori che lavorano nelle cooperative, per conto terzi, nel precariato, nel pubblico o nel privato.
Il lavoro editoriale è la metafora dell’Italia contemporanea. Parliamo della sua passione dominante, dell’orizzonte politico, della speranza del futuro. Ma anche della necessità, avvertita da molti, di riunirsi, aiutarsi, darsi supporto, scavalcando i limiti ideologici che il soggetto ha accettato per fare un lavoro. Quando sei costretto ad accettare l’impossibile (cioè un lavoro non pagato o pagato una miseria) e continui a farlo perché è quello che hai sognato di fare, per cui ti sei formato, emerge una contraddizione ingovernabile. A quarant’anni, o poco più, giungerà il momento della rinuncia.
Questa soglia non è affatto quella della “maturità”, il passaggio della linea d’ombra che separa i sogni da ragazzi con la dura realtà di chi deve portare il pane a casa. Al contrario è la presa di coscienza, da parte della maggioranza di unlavoro a forte componente femminile (i tre quarti del campione osservato) che non è possibile guadagnare dai propri lavori, che non è possibile vivere una maternità serena, e che il lavoro oggi in Italia – qualsiasi forma di lavoro o tipologia contrattuale – non permette di vivere la normale condizione del cittadino. I ventenni di oggi non arriveranno nemmeno a questa soglia. Attorno a loro è stato fatto un deserto. E la chiamano ancora precarietà.
Organizzare i non organizzati
Oltre al desiderio di dotarsi di un’organizzazione mutualistica, emerge da queste inchieste la necessità di ottenere un reddito a supporto di quello che i singoli percepiscono. Il lavoro c’è, si tratta chiaramente di reinventarlo, non è tuttavia possibile continuare a svolgerlo senza una tutela universale, un reddito minimo. È la questione dei salari in Italia, tra i più bassi d’Europa, riguarda tanto l’operaio quanto il freelance. Quest’ultimo nell’editoria guadagna in media meno di 15 mila euro lordiall’anno. Sei donne su dieci guadagnano ancora meno rispetto ai colleghi maschi nella stessa condizione. Ciò costringe ad accumulare più contratti, di diverse tipologie, impegnandosi in un superlavoro che non permette comunque di fare un mutuo, ottenere la copertura delle spese sanitarie in caso di infortuni o malattie.
In concreto, sono state messe in campo strategie per contrastare questa tendenza. Il sindacato dei traduttori Strade ha inaugurato, insieme alla società di mutuo soccorso “Insieme salute”, una mutua dedicata a Elisabetta Sandri che assicura un’assistenza socio-sanitaria a tutti i lavoratori indipendenti. Occorrono almeno 2 mila persone per costruire un fondo autonomo. Strade ha ottenuto l’adesione di numerose associazioni che rappresentano le professioni autonome non ordinistiche. La rete redattori precari propone un “welfare contrattuale” ai collaboratori con e senza partita IVA, la definizione di compensi minimi per ogni profilo professionale, la lororappresentanza sindacale. Roberto Ciccarelli

 









   
 



 
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