Il petrolio iracheno nelle mani della Cina
 











“I cinesi sono i principali beneficiari del boom petrolifero post-Saddam in Iraq”, così Denise Natali, esperta di Medio Oriente alla National Defense University di Washington, riassume la situazione in Iraq dopo la lunga guerra e il ritiro degli Stati Uniti. Infatti, come riporta il New York Times, dall’invasione statunitense del 2003, l’Iraq è diventato uno dei principali produttori di petrolio del mondo, e la Cina è ora il suo principale cliente. Con buona pace della “guerra per il petrolio” di George W. Bush. Anche in Iraq, quindi, si ripropone uno scenario simile a quello dell’Afghanistan, dove gli Usa hanno speso soldi e soldati in una guerra “inutile”, mentre la Cina si è mossa massicciamente per fare ricchi affari.
“Abbiamo perso”, dice Michael Makovsky, ex funzionario del Dipartimento alla Difesa Usa sotto l’amministrazione Bush, che ha lavorato sulla politica petrolifera irachena. “I cinesi – spiega – non hanno avuto niente a che farecon la guerra, ma da un punto di vista economico ne stanno beneficiando, e la nostra Quinta flotta e la nostra aeronautica contribuiscono a garantire i loro approvvigionamenti”.
A marzo scorso uno studio di una trentina di docenti ed esperti della Brown University stimò in 60 miliardi di dollari il costo complessivo dell’avventura statunitense in Iraq. A pesare sul bilancio – oltre alle spese sostenute per la guerra sul campo, l’instaurazione di un nuovo governo dopo la caduta di Saddam Hussein e i tentativi di stabilizzazione interna del Paese – sono soprattutto i 590 miliardi in assegni di invalidità e assistenza sanitaria futura ai veterani di guerra. Sempre secondo lo studio del “Watson Institute for International Studies”, inoltre, se a queste cifre si sommano anche gli interessi che verranno maturati nei prossimi quattro decenni per le obbligazioni emesse da Washington per pagare la guerra, la cifra supera i 6.000 miliardi dollari.
E mentre negli Usa sono impegnati conquesti dolorosi calcoli, nel frattempo la Cina già acquista quasi la metà del greggio estratto quotidianamente in Iraq, circa un milione e mezzo di barili al giorno. E secondo il New York Times sta ora cercando di soffiare alla compagnia statunitense Exxon la gestione di uno dei più grandi campi petroliferi del Paese. E ci potrebbe riuscire, soprattutto grazie alla disponibilità delle compagnie cinesi di accettare le regole stringenti chieste dal nuovo governo iracheno e di avanzare meno richieste delle avversarie occidentali.
“Hanno bisogno di energia, e vogliono entrare nel mercato”, sottolinea Denise Natali. E lo stanno facendo con successo. Una volta caduto Saddam e con lui le sanzioni internazionali, le compagnie cinesi si sono gettati a capofitto nel ricco ma indebolito mercato iracheno del petrolio, investendo oltre due miliardi di dollari l’anno e inviando centinaia di lavoratori nel Paese. Di recente, riporta il Nyt, la Cina ha persino costruito un aeroporto nel desertovicino al confine iraniano per trasportare i suoi lavoratori impegnati nei campi petroliferi nel sud dell’Iraq, e presto saranno avviati voli diretti tra Pechino, Shanghai e Baghdad.
Inoltre alla fine dello scorso anno la China National Petroleum Corporation (Cnpc) ha lanciato un’offerta per acquisire il 60 per cento dei diritti del ricco giacimento meridionale di West Qurna I. Il campo al momento vede la massiccia presenza della Exxon Mobil, che tuttavia potrebbe essere costretta ad abbandonare per alcuni disaccordi con il governo di Baghdad, che non vede di buon occhio gli accordi stretti dalla compagnia statunitense con le autorità della regione autonoma del Kurdistan iracheano.
Al contrario delle altre compagnie occidentali, i cinesi sono disposti ad accettare i rigidi termini imposti dagli iracheni nei contratti petroliferi, accontentandosi di minori profitti. Questo perché le aziende cinesi non devono dare conto agli azionisti, pagare dividendi o generare profitti. Ma sonostrumenti della politica estera di Pechino volta ad assicurare le forniture necessarie ad una popolazione sempre più ricca e sempre più affamata di energia.
“C’è una grossa differenza – spiega Abdul Mahdi al-Meedi, un funzionario del ministero del Petrolio di Baghdad incaricato della gestione dei contratti con le compagnie straniere – le compagnie cinesi sono aziende di Stato, mentre la Bp, la Exxon o la Shell sono diverse”.
Il parallelo afgano
Mentre Usa e alleati perdevano uomini e soldi in una guerra voluta da loro, in Afghanistan i cinesi si adoperavano a fare affari con il governo di Kabul. E così nel 2008 i diritti di sfruttamento della più grande miniera di rame del Paese (Aynak, nella provincia del Logar) sono finiti in mano alla China Metallurgical Group (Cmg). La stessa che sfrutterà una grossa miniera di carbone per alimentare una centrale da 400 megawatt. Costruita sempre dalla Cmg. I cinesi si sono aggiudicati anche la prima concessione petrolifera del nuovogoverno afgano a una società straniera. Nel 2011 la China National Petroleum Corporation (Cnpc) ha ottenuto i permessi per effettuare trivellazioni alla ricerca di petrolio e gas nelle provincie afgane di Sari Pul e di Faryab, dove si stima ci siano da estrarre circa 87 milioni di barili di greggio. E ancora infrastrutture, strade, ferrovie, centrali idroelettriche... tutte costruite dai cinesi in base agli accordi tra Kabul e Pechino.Ferdinando Calda









   
 



 
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