L’austerità è un cappio che soffoca i popoli e le economie, una cura malevola e letale e ben peggiore della malattia che pretende di curare. Promossa dagli stessi responsabili della crisi, al suo passaggio consuma risorse e diritti, crea nuove disuguaglianze e fratture, indebolisce la democrazia e sgretola il welfare e non risparmia neanche l’ambiente, davvero l’ultima delle preoccupazioni della speculazione finanziaria. Ma è anche la spia di una crisi sistemica di questo modello di sviluppo incapace di soddisfare la domanda planetaria, concentrando enormi ricchezze nelle mani di una ristretta oligarchia finanziaria che gestisce un’economia irresponsabile e sempre più lontana dal lavoro. L’undicesimo Rapporto annuale sui diritti globali (“Il mondo al tempo dell’austerity”) curato e presentato dalla Cgil e una dozzina tra onlus e associazioni (dall’Arci a Legambiente, passando per il Forum ambientalista e Sbilanciamoci) punta i riflettori drittisulla questione sociale e sulle scellerate risposte che i governi e i grandi organismi monetari internazionali hanno dato alla recessione. I piani di tagli lacrime e sangue ai servizi e agli stipendi pubblici, le misure di contrazione dell’economia, la crescita zero, l’ideologia del debito, stanno dando il colpo di grazia al sistema di diritti e protezione sociale costruito nei decenni dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Quel che sta accadendo nella vecchia Europa, in particolare quel che è accaduto alla Grecia è la fotografia più impietosa del disastro che in corso, con la disoccupazione triplicata in pochi anni e una povertà dilagante specie tra le giovani generazioni. Quasi un laboratorio dove sperimentare una macabra anteprima di quel rigore che potrebbe essere applicato ad altri Paesi, Spagna e Italia in primis. Tanto più che le statistiche dicono che la strada da percorrere è esattamente quella opposta. Chi ha scelto di promuovere politiche di crescita invece dellesolite ricette d’austerità ha infatti ottenuto risultati in controtendenza. Ad esempio gli Stati Uniti che rilanciando l’economia reale sono riusciti a ridurre la disoccupazione e far crescere il Prodotto interno lordo di due punti e mezzo. O, come fa notare l’economista Paul Krugman che cita i numeri dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo), nazioni come il Brasile, l’Uruguay o l’Indonesia che hanno puntato sullo sviluppo, aumentando l’occupazione e migliorando sostanzialmente la qualità del lavoro. Al contrario l’Europa ha scelto la via della precarietà e della flessibilità del mercato del lavoro nel terribile combinato disposto con le cure anti deficit. Le decisioni della cosiddetta Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) promosse dalla Germania della Cancelliera Merkel si sono rivelate in tal senso un’autentica sciagura. Ammantate di rigore accademico e presentate come un’ineluttabile necessità, le cure dimagranti dello statosociale rispondono a una logica politica dal sapore vendicativo. Come denuncia allarmato Sharan Burrow, segretario generale dell’International Trade Union Confederation (il sidacato mondiale) nella prefazione al Rapporto, «siamo di fronte a una storica e finale resa dei conti con il modello sociale che ha contraddistinto a lungo l’Europa, garantendo i diritti del lavoro e delle fasce più deboli della popolazione. Dietro lo schermo delle ragioni economiche e di bilancio si afferma una visione del mondo e delle relazioni sociali e umane diversa da quella che abbiamo conosciuto e che è stata conquistata dalle lotte e dai sacrifici dei lavoratori, dei sindacati, delle forze sociali lungo tutto il secolo scorso».d.z.
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