Cinque anni di fallimenti
 







di Giuliana Sgrena




Coprifuoco a Baghdad nel quinto anniversario dell’occupazione della capitale irachena da parte delle truppe americane. Un segno tangibile del fallimento della politica di occupazione Usa. Dopo il proclamato, quanto discutibile anche per il generale Usa Petraeus, successo del premier Nouri al Maliki nella battaglia di Bassora contro le milizie del leader radicale sciita Muqtada al Sadr il governo e gli Usa temevano una prova di forza: per oggi il leader sciita aveva lanciato un appello a manifestare contro l’occupazione americana.
A smentire i successi di David Petraeus, comandante delle forze Usa in Iraq, è lo stesso generale. Ieri, in una deposizione in Congresso a Washington ha infatti parlato di progressi «significativi ma non omogenei» smorzando l’ottimismo alimentato da Bush con la sua nomina lo scorso settembre. Del resto la ripresa degli scontri con numerose vittime (anche americane) nell’ultimo mese non inducono certo ad accreditare i successi vantati neimesi scorsi dalla Casa bianca. Tanto che è lo stesso generale Petraeus a sconsigliare una riduzione delle truppe e a proporre anzi una pausa di riflessione di 45 giorni a luglio, quando sarà terminato il ritiro della brigata di rinforzo inviata lo scorso anno. Tutto si muove dunque in funzione dell’applicazione di quell’accordo bilaterale che dovrebbe essere approvato prima della scadenza del mandato Onu (e di quello di Bush) a fine anno. Un accordo che dovrebbe garantire una permanenza (occupazione) «illimitata» (nel tempo e nel numero) delle truppe Usa in Iraq, che peraltro non sarebbero rinchiuse in basi fortificate. Questo quanto contenuto nella bozza dell’accordo bilaterale Usa-Iraq ancora formalmente «segreto» ma i cui contenuti sono già stati anticipati da diversi giornali (e ci sono stati confermati da fonti dirette). All’esercito Usa verrebbe garantita la libertà di azione, l’impunità (contractor compresi) e la possibilità di arrestare persone ritenute pericolose per lasicurezza. Un accordo capestro (per gli iracheni) accettato dal premier Nouri al Maliki ma che difficilmente passerebbe al vaglio del parlamento. Pur essendo un trattato bilaterale lo status dell’esercito Usa potrebbe essere esteso ad altri militari partecipanti alla forza multinazionale. «La sensazione a Baghdad è che un simile accordo sarebbe respinto dal parlamento, soprattutto dopo gli avvenimenti delle ultime due settimane», secondo una fonte sunnita ripresa ieri dal quotidiano britannico The Guardian. Gli effetti dello scontro tra governo iracheno, appoggiato dalle truppe americane, e i miliziani del Jaish al Mahdi (l’«esercito» del leader radicale sciita Muqtada al Sadr) stanno ancora provocando la fuga degli abitanti dalla bidonville sciita di Baghdad, Sadr city, che abbandonano le povere case sotto attacco senza portare via nulla. Altri sfollati che si andranno ad aggiungere ai due milioni di iracheni che hanno già abbandonato le loro case per sfuggire alle violenze e allapulizia etnica che ha ridefinito i quartieri di Baghdad. Mentre altri due milioni di iracheni si sono rifugiati nei paesi vicini. Il rientro in Iraq, di cui si era parlato negli ultimi mesi, resta un miraggio perché non ci sono le condizioni di sicurezza, anche se, come ha detto il generale Petraeus «duri colpi sono stati inflitti ad al Qaeda», la situazione resta «fragile». Un eufemismo per non dire drammatica. Peraltro a infliggere duri colpi ad al Qaeda non sono state le truppe americane ma i gruppi sunniti che hanno deciso di liberarsi dall’abbraccio mortale dei terroristi, ma che potrebbero rivoltarsi contro gli americani se questi non manterranno la promessa (ostacolata dal governo di al Maliki) di reinserire gli ex-militari sunniti nell’esercito iracheno. Per ora comunque i maggiori timori nutriti dal premier al Maliki sono nei confronti di Muqtada al Sadr, che peraltro aveva favorito la formazione del suo governo, perchè potrebbe vincere le elezioni regionali a Bassora, quindioccorre annientare le sue forze prima della scadenza elettorale dell’autunno. Come è avvenuto nelle settimane scorse con la caccia scatenata contro i miliziani dell’esercito al Mahdi. Con il pretesto di disarmare le milizie l’esercito iracheno ha attaccato esclusivamente le forze di Muqtada (e non le brigate al Badr dello Sciri, il Consiglio supremo islamico iracheno, al governo). A riportare la tregua è stata la mediazione iraniana, che ancora una volta ha dimostrato l’influenza di Tehran sull’Iraq sciita. E mentre Muqtada si è rifugiato a Qom, punto di riferimento religioso in Iran, si dice, per completare i suoi studi teologici, ha affidato la scelta sul disarmo delle sue milizie (che conterebbero circa 70.000 uomini) al grande ayatollah Ali al Sistani, anche lui di orgine iraniana. Una nuova mossa astuta del leader sciita per uscire dall’isolamento in cui lo scontro con il governo l’aveva cacciato. de Il Manifesto









   
 



 
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