Si sono ieri incontrati in quattro: il presidente del Consiglio e tre ministri in forza al governo Letta, tutti quanti di matrice democristiana, sia pure diversi per estrazione sociale e cultura politica, passati attraverso il tritacarne del ’92 che ha affossato la Prima repubblica, riciclando tuttavia una parte cospicua della peggiore nomenclatura politica, divisa – senza differenze avvertibili se non con un microscopio alquanto sensibile – fra centrodestra e centrosinistra. Nelle loro mani sta il futuro del Paese, dello stato di diritto, della Costituzione, della democrazia. Il surreale oggetto dell’incontro, scoprire se esista oppure no un modo, una strada, un pertugio quale che sia per annullare gli effetti della sentenza che condanna Berlusconi all’interdizione dai pubblici uffici e rilanciare il pregiudicato capo del Pdl nell’agone politico. L’oggetto dello scambio (o, per meglio dire, del ricatto) è, come ormai sanno anche i bambini, ilsostegno del governo in cambio del salvacondotto. Stando ai resoconti giornalistici attinti dalle due parti e per una volta singolarmente unanimi nel giudizio, le posizioni restano distanti, perché Letta avrebbe confermato l’indisponibilità all’ignobile baratto. Certo è che, per una simile conclusione, tre ore (tanto è durato il confronto) paiono davvero tante. E’ possibile, anzi probabile, che il confronto si sia spinto oltre, ma la diplomazia avrà suggerito a tutti di tenere le bocche cucite e le bocce ferme. Del resto, si vedrà fra breve se i Democratici terranno davvero fede alle dichiarazioni fatte a più riprese in questi giorni, votando per la decadenza di Berlusconi da senatore. Ma a cosa mira, nella migliore delle ipotesi, il Pd o, per lo meno, quella parte di esso che considera chiusa l’era del caimano? Una parte, invero minoritaria, spera che si archivi il governo delle larghe intese e si apra una nuova stagione politica all’insegna della resurrezione democratica delPaese. Ma la maggioranza, distribuita trasversalmente fra ex-Margherita ed ex-Ds, insegue tenacemente l’obiettivo di un Pdl deberlusconizzato, affrancato dal padre-padrone, al fine di rilanciare il modello del governo bipartisan non più ipotecato (e sputtanato) dall’uomo di Arcore. Costoro si illudono quando pensano che alla fine i suoi cortigiani abbandoneranno colui a cui debbono tutto. Si rassegnino: non ci sarà il 25 luglio di Silvio Berlusconi. Ma anche nell’ipotesi, puramente di scuola, che una simile eventualità dovesse verificarsi, la domanda su cui gli strateghi democrat preferiscono soprassedere è: “Per fare cosa?”. Con tutta evidenza, il profilo politico del governo non cambierebbe di un filo, a prescindere dal compromesso possibile intorno ad Imu e Iva su cui si avvita il farsesco dibattito odierno. Il perimetro dentro il quale si muove Letta è quello i cui paletti sono stati conficcati nel terreno da Mario Monti, in perfetto accordo con la Troika. Quella continua adessere la stella polare, con o senza Berlusconi. Daniela Santanché, nel suo furore reazionario ed eversivo, ha consegnato al Fatto Quotidiano di oggi una verità inossidabile: «Se noi siamo avanzi di galera, se ci schifano, se siamo tutti gente che deve finire in carcere – ha detto – come mai la sinistra governa con noi?». Forse, verrebbe di rispondere all’impronta, perché quella che la “pitonessa” chiama sinistra, riferendosi al Pd, della sinistra non ha più neppure remote sembianze. Ma Santanchè ha colto il punto centrale della questione e cioè che il Pd sta governando, per scelta e non per costrizione, con la destra più corrotta, impregnata di cripto-fascismo e dunque intrinsecamente estranea ai fondamenti della democrazia del vecchio continente. Non solo: l’aspirazione del Partito democratico sarebbe quella di potere protrarre più in là possibile questa coalizione. Ecco perché la crisi di governo scombussolerebbe questo avvitamento perverso e aprirebbe uno scenario del tuttonuovo. Proviamo a muovere l’immaginazione. Il Pd vota la decadenza di Berlusconi, dal Colle non gli arriva la grazia, lui toglie la fiducia al governo e Letta si dimette. Ma Giorgio Napolitano, fedele all’imperativo di non porre fine alla legislatura e riconsegnare il Paese alle urne, gioca una carta inedita: chiede a Stefano Rodotà di esplorare la possibilità di formare un governo che faccia della realizzazione della Costituzione del ’48 il proprio progetto politico. Con almeno due punti essenziali: la restaurazione del valore prescrittivo dell’articolo 3 della Carta, che pone i diritti fondamentali al lavoro, alla salute, all’istruzione al di sopra di tutto, dunque al di sopra dei patti iugulatori che nel nome dell’austerità e della stabilità monetaria stanno distruggendo lo stato sociale; i 14 articoli che formano il titolo III della Costituzione, quello che regola i rapporti economico-sociali e che afferma – senza ombra di dubbio o di equivoco – che la libertà d’impresa deveconformarsi all’interesse sociale e non può ledere la libertà, la dignità, la sicurezza umana, rimettendo sui piedi il rapporto fra capitale e lavoro oggi travolto da una legislazione e da un orientamento politico che fanno del capitale il dominus assoluto. Se questo facesse il capo dello Stato, si troverebbe nel parlamento un’ampia maggioranza disposta a sostenerlo, grillini compresi, con una squadra di governo formata non da vecchi sugheri della politica-politicante, ma da esponenti dalla più solida cultura democratica. Che per fortuna c’è ancora nel Paese. Una cultura fatta, certo, di competenze, ma finalmente incardinate su un solido architrave costituzionale. Si trattrebbe, in definitiva, di un’operazione simmetrica e opposta a quella che mise in sella il tecnocrate di fede liberista asservito ai mercati che ha fatto per un anno da lepre al governo delle larghe intese. Non è questo, ohinoi, che pensa Giorgio Napolitano. Ma che una possibilità sia data oppure no fa, inpolitica come nella vita personale, una grande differenza: se non altro per valutare ciò che effettivamente si fa. Chi questa possibilità la vede farebbe bene a lavorare sin d’ora per dare ad essa una chance. Dino Greco
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