L’unico valore dell’Afghanistan per gli Stati Uniti è l’essere uno spazio vuoto. Come ha scritto Ramtanu Mitras su Asia Times, «l’arrivo delle truppe statunitensi in Afghanistan nel 2001 fu una politica deliberata per stabilire basi avanzate nella confluenza di tre aree principali: Medio Oriente, Asia Centrale e Asia del Sud. Non solo si tratta di aree ricche di fonti energetiche, ma anche del punto d’incontro di tre potenze emergenti: Cina, India e Russia». In quanto spazio vuoto, l’Afghanistan richiedeva di essere militarmente occupato, e però al tempo stesso mantenuto al minor costo possibile. A differenza delle colonie del secolo XIX e delle nuove nazioni del Terzo mondo indipendenti dopo la Seconda guerra mondiale, molto poco è stato fatto e si farà per sviluppare le attività economiche o le infrastrutture: l’Afghanistan non offre infatti prodotti e mercato interessante. Offre solo uno spazio vuoto dal quale proiettare potere e influenza. Inquesto senso, adesso che le finanze del Primo mondo sono stanche, quel paese rappresenta la neocolonia ideale per il XXI secolo: uno spazio vuoto da gestire al minor prezzo possibile. La necessità di mantenere a Kabul un governo accentrato e filoccidentale si scontra però con l’ancestrale opposizione alla «occidentalizzazione», specialmente se questa sminuisce la religione, aumenta la corruzione, ignora le radici di profonda rivalità etniche e cerca di minare le politiche e le lealtà delle tribù imponendo un’autorità centrale. Gli sforzi degli Usa e della Nato su tre terreni in particolare servono solo a rafforzare la resistenza e sottolineano la grande distanza rispetto all’Iraq. In primo luogo, l’impegno a stabilire un governo centrale efficace minaccia le tradizionali politiche tribali dell’Afghanistan. In secondo luogo, l’insistenza degli Usa nella sua particolare visione di «democrazia, diritti umani, eguaglianza di diritti per le donne» ha indignato gli islamici piùtradizionalisti, compresi quelli che all’inizio applaudirono alla cacciata dei talebani. In terzo luogo, lo sforzo intrapreso dalle forze d’occupazione per eliminare le colture di oppio ha minacciato l’esistenza fisica di milioni di famiglie contadine povere. In assenza di qualunque ricostruzione, si dà credibilità al messaggio dei taliban: stranieri=sradicamento delle piantagioni di oppio; no stranieri=ricostruzione. Nei tre casi, la situazione in Iraq è molto diversa. Al minor costo possibile Dall’obiettivo di mantenere l’Afghanistan uno spazio vuoto deriva una serie di implicazioni. Primo, il fatto che pochissimi sforzi sono stati dedicati alla ricostruzione e mentre c’è stata ampia tolleranza verso la corruzione, cose che hanno contribuito a disilludere la popolazione e a rafforzare la resistenza in armi. Nel 2006 l’amministrazione Bush ha tagliato gli aiuti per la ricostruzione del paese da 790 milioni di euro a 476 milioni; si confrontino queste cifre con le spese Usaper le operazioni militari in Afghanistan: 8 miliardi di euro. Il pomposo incontro internazionale di paesi donatori tenutosi a Londra nel gennaio 2006 , fra discorsi appassionati e alta retorica, dal punto di vista pratico ha portato meno delle analoghe conferenze di Tokyo (2002) e Berlino (2004). Certo, sono in esecuzione alcuni progetti utili a migliorare la vita degli afghani più poveri, ma certo non grazie all’inefficienza governativa, alle priorità ufficiali, o all’occupazione militare; anzi, piuttosto, malgrado tutto ciò. Un possibile esempio è l’associazione fra l’organizzazione non governativa del Bangladesh Brac e il Programma nazionali di solidarietà del Ministero della riabilitazione rurale dell’Afghanistan. Una seconda implicazione è che gli Stati Uniti si preoccupano ben poco della vita quotidiana della media degli afghani. Quel che succede nell’Afghanistan presieduto dal grande satrapo Hamid Karzai deve essere presentato come stupendo, per servire come cassa dirisonanza all’amministrazione Bush. Vanno invece ignorati: oppio, violenza, oscena opulenza di pochi in un mare di povertà, indici di sviluppo umano deplorevoli, corruzione, narcomafie, connivenze, un Parlamento che contiene una maggioranza di elementi antidemocratici e via dicendo. In ogni modo, ben pochi sforzi sono stati fatti per «guadagnare i cuori e le menti». Quando ci si accorge che le piantagioni di oppio possono essere una fonte di finanziamento per la resistenza, arriva il momento di mandare forze politiche e militari a sradicare i bulbi in fiore senza tener conto della sorte dei contadini privati di ogni fonte di reddito. Come ha affermato Simon Jenkins, «l’occupazione dell’Afghanistan è servita solo a trasformare i talebani da oppositori a paladini del commercio di oppio». La politica di Bush e del premier britannico Tony Blair rispetto all’oppio afghano è stata assolutamente cinica: come premio ai signori della guerra per il loro appoggio a Karzai, le forzeinternazionali finsero di non vedere le semine avvenute fra il 2002 e il 2005. In seguito la campagna di sradicamento delle piantagioni ha riguardato soprattutto il sud a popolazione pastun, anziché le regioni del nord che sono controllate dall’Alleanza del Nord, alleata di Karzai. Una terza implicazione è che mantenere la chimera di un governo centrale è necessario. Il marchio Karzai è stato venduto bene al pubblico internazionale. Non importa se il potere del leader, dopo anni e anni dalla caduta dei talebani, si limita alla capitale e poco oltre. Quando nei mezzi di comunicazione statunitensi sono risuonate alcune voci critiche, l’amministrazione ha fatto di tutto per screditarle dichiarando guerra alla cattiva stampa. Fra il 2003 e il 2006 l’amministrazione Bush ha sborsato l’equivalente di 1,3 miliardi di euro per allineare l’opinione pubblica al Pentagono. Infine, mentre sono cresciuti ben oltre le aspettative i costi finanziari ed economici del mantenimento di uno spaziovuoto in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno cercato di coinvolgere i paesi della Nato in combattimenti sempre più aspri. Intanto continuano a dichiarare con toni sicuri che «i taleban possono essere un problema tattico contingente per noi, ma noi siamo un problema strategico di lungo termine per loro» (Peter Pace, capo di stato maggiore Usa). Toni da propaganda, che dimenticano il fatto che anche i mojaheddin per i sovietici iniziarono come un problema «tattico», per convertirsi in seguito nel problema strategico centrale per le forze di occupazione sovietiche, nel senso che la «vittoria» dei mojaheddin era garantita dal semplice fatto di non essere sconfitti (come ammise candidamente Henry Kissinger). La sofferenza invisibile Oggi, per quanto le forze di Stati Uniti e Nato possano godere di un vantaggio strategico e la resistenza afghana di un vantaggio tattico, nella pratica le posizioni si stanno invertendo: la seconda sta sviluppando un vantaggio strategico e le primeacquisiranno un vantaggio tattico (grazie al loro potere di fuoco concentrato, soprattutto aereo, mentre gli afghani non hanno capacità antiaeree). La mia analisi si discosta in modo evidente da buona parte di quanto affermano i mezzi di comunicazione di massa. Per esempio, nel programma televisivo Nightly News Hour di Jim Lehrer, un esperto di questioni afghane lamentava la risicatezza delle somme destinate alla ricostruzione economica, soprattutto se confrontate con le spese militari. Ma è proprio questo che bisogna fare, se l’Afghanistan deve essere mantenuto come spazio vuoto, al minimo costo di mantenimento. Un altro invitato nel programma sosteneva che gli afghani devono imparare a credere nel regime di Karzai e nel suo sponsor statunitense. Ma le masse di quel paese hanno tutti le ragioni per non riporre alcuna fiducia in chi non ha fatto nulla per loro: Karzai, i signori della guerra, i rispettivi circoli di opportunisti. La situazione della guerriglia in Afghanistan èpiù complicata di quella dell’Iraq, che patisce una guerra civile fra le varie comunità. In Afghanistan certo c’è qualcosa di simile, dal momento che il grosso degli attacchi si verifica nelle province pastun, e inoltre il massacro fra fazioni di mojaheddin che ha segnato gli anni 90 evoca una guerra civile. Ma ora il conflitto ha dimensione nazionale, religiosa e di classe che etnica. Gli insorti hanno ragione quando affermano che il regime di Karzai è illegittimo e rappresenta solo gli interessi limitati di una classe urbana, una pseudoborghesia materialista e cleptocratica appoggiata da un governo straniero. Uno spettacolo grottesco si rinnova ogni volta che la rinata insorgenza utilizza le sue armi a basso costo, gli attentati suicidi. Ancora una volta è sul popolo afghano che si scaricano e si scaricheranno i tormenti; come è avvenuto durante la guerra antisovietica, la guerra fra le fazioni rivali di mojaheddin, il dominio dei Taleban e i bombardamenti «di precisione»degli Stati Uniti nel 2001 e dopo. Nello spazio vuoto dell’Afghanistan, la gente comune è invisibile. E così pure le sue sofferenze quotidiane.de Il manifesto
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