Creare Lavoro. Bloccare ogni volatilità
 











Con il termine “volatilità” solitamente ci si riferisce all’altalena delle quotazioni dei titoli in borsa che consente ai più esperti speculatori di giocare coi soldi (degli altri) come biscazzieri. Ma quando invece ci si riferisce alla volatilità del lavoro non c’è nessuno che gioca, nessuno che si diverte, perché il Lavoro, che è stato alla base del nostro sistema sociale per diversi secoli, ed era sempre cresciuto insieme alla popolazione, adesso nei paesi cosiddetti industrializzati sta svanendo con rapidità progressiva terrificante.
I due principali fattori di questo crollo sono da un lato l’automazione delle linee produttive ad alta tecnologia, che vengono manovrate da pochissimi operai altamente specializzati, e dell’altro lato il sempre più capillare decentramento delle lavorazioni semplici nei paesi con mano d’opera a basso costo. L’effetto combinato di questi due fenomeni sta facendo tabula rasa di tutte le principali occasioni dilavoro che, solo 20 o 30 anni fa erano la base del nostro sistema sociale.
Di questi due fattori il più deleterio è senza dubbio quello del decentramento verso le economie più povere operato dal sistema capitalistico moderno. Se nella fabbrica automatizzata un po’ di personale occorre ancora, la fabbrica che si trasferisce all’estero lascia invece un vuoto totale.
I nostri politici (sia gli americani che gli europei) continuano a blaterare di ripresa. C’è chi dice che ci sarà nel 2014, chi la ipotizza nel 2015.
Meglio non farsi illusioni. La “ripresa” che vedono loro non è una ripresa concreta, cioè un ritorno alla normalità dopo la crisi, come accadeva nelle recessioni precedenti e come è nella speranza del semplice cittadino e del giovane che cerca lavoro. E’ una ripresa fatta in prevalenza da business internazionale e da cifre che solo pochi eletti sanno decifrare.
Persino Obama, nel suo discorso di mercoledì 24 luglio al Knox College di Gallesburg, Illinois ha volutorifocalizzare l’impegno del suo governo alla crescita economica e al rilancio dell’occupazione.
La sua strategia però appare alquanto convenzionale: la ristrutturazione di porti, strade, ponti; l’aumento della paga minima per i lavoratori; lo sviluppo di nuove fonti di energia; la ricostruzione delle manifatture. Solo quest’ultimo punto è veramente innovativo, anche se comporta semplicemente il fare cose vecchie, perché ci si accorge finalmente della necessità di mantenere sul territorio nazionale anche produzioni convenzionali, per dare opportunità di lavoro anche a personale non altamente specializzato.
Obama vede giusto quando dice che è la classe media del paese quella da sostenere, perché sostenere una crescita, come fanno i rivali repubblicani, tendente a premiare con maggiore ricchezza solo quelli che sono già ricchi, farebbe tramontare definitivamente le opportunità per tutti, un volano economico già da un paio di decenni in grave sofferenza, e soprattutto non farebbedecollare l’economia del paese per una definitiva uscita dalla crisi.
Per far questo non basta prolungare di qualche mese il “Quantitative Easing III” o altre diavolerie finanziarie intese a incentivare le imprese o altri settori dell’economia.
Occorre agire più direttamente e concretamente sul comparto produttivo per generare posti di lavoro tradizionali. Ma questo è oggettivamente difficile da fare negli Stati Uniti a causa della fortissima opposizione, specialmente dei repubblicani, a questo tipo di intervento di stampo pubblico (o “socialista”, come dicono loro).
Sarebbe più semplice da fare in Europa, e io mi auguro che davvero lo facciano i politici europei, perché è l’unico vero rimedio per uscire in fretta dalla crisi. Obama ha indicato il soggetto giusto da sostenere (la classe media del paese) ma non puo’ farlo in proprio, deve rivolgersi agli imprenditori privati per avviare concretamente queste azioni, e gli imprenditori privati americani dicono che non è affarloro.
Insomma, ormai è chiaro qual è il nodo centrale della crisi in tutti i paesi industrializzati: è la mancanza di lavoro per quei lavori d’azienda che erano diventati la colonna vertebrale delle loro economie. L’inaridimento di queste fonti di lavoro ha creato una situazione di volatilità, nel lavoro, a tutto svantaggio dei lavoratori e, soprattutto nei paesi dove la legislazione a protezione dei lavoratori era più avanzata, a totale svantaggio dei giovani in cerca di entrare nel mercato del lavoro.
L’automazione dei processi produttivi era già da sola un grosso problema per la fluidità del mercato del lavoro, ma almeno in parte era risolvibile specializzando le persone, invece si è accelerata la desertificazione di questa vitale risorsa economica spalancando la porta agli imprenditori per trasferire le imprese, o i loro comparti produttivi, all’estero, dove il lavoro costa quasi niente.
Il risultato è una crisi dalla quale non si puo’ uscire con politiche ordinarie digestione del mercato del lavoro lasciato alla discrezionalità delle imprese.
Le imprese non possono risolvere questo problema, non e’ compito loro.
Se ne deve occupare lo Stato.
E lo Stato ha solo due strade che puo’ prendere: chiudere le porte al lavoro portato all’estero e ripristinare, almeno per qualche anno, i lavori fatti sul suolo nazionale nel modo tradizionale (mettendo da parte in questi casi il principio della competizione, dato che l’interesse nazionale è certamente superiore a quello della singola impresa pubblica).
La cosa migliore da fare sarebbe fare entrambe le cose. Roberto Marchesi









   
 



 
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