Sergio Cofferati:
-Ora apriamo alla società e all’Alleanza-
 











Sergio Cofferati

C’è dentro, ormai. Partecipe e coinvolto. Sergio Cofferati è andato al congresso della sua sezione. Poi, a quello della Federazione Ds di Bologna. Qui ha detto la sua. E non ha votato per alcuna mozione, coerente con la critica mossa alle modalità «tese più a rimarcare le differenze che ad aprire il confronto» di queste assise. Ma il suo contributo ha pesato comunque. E si è riflesso anche sul documento e gli ordini del giorno conclusivi della discussione congressuale. Tutti collegialmente definiti, al di là della stessa iniziativa dei cosiddetti 22 non allineati che il neo sindaco di Bologna ha seguito con simpatia («Sì, mi piace perché mi è sembrata raccogliere l'anelito di apertura e di libera ricerca»). E tutti, proprio perché espressivi di un più alto livello di sintesi, votati all'unanimità o quasi. «Una novità politica, un passo avanti importante», commenta Cofferati: «Tanto più ora che i Ds devono farsi carico, per la loro parte (e non època), di concorrere a superare le pesanti difficoltà in cui si ritrova l’alleanza».
Allora, la dialettica politica non è d'impedimento ad elaborazione più ampie e perfino ad approdi comuni?
«Non saprei dire quanto abbia pesato sulla ricerca di convergenze realizzatasi a Bologna la storia recente e l'esigenza diffusa di dare continuità agli elementi positivi della stagione elettorale amministrativa. Né saprei dire se questa esperienza sia possibile anche altrove. Rilevo solo che è capitato qui, in una città tornata ad essere significativa per la sinistra italiana grazie alla forte avanzata dei Ds sulle amministrative precedenti, il ritorno alla politica di tanti giovani e donne, la costruzione di uno schieramento largo con tutti i partiti del centrosinistra ma anche con il coinvolgimento di associazioni e movimenti. Lo trovo confortante».
A questo risultato, però, si è arrivati a ridosso del confronto e del voto sulle mozioni. Perché nonritenere che queste basi di chiarezza abbiano favorito la convergenza politica?
«Non vorrei nemmeno dire che una manifestazione di disponibilità così piena, da parte di tutti, dimostra che le mie aspettative su un congresso che si proiettasse verso un orizzonte comune proprio prive di fondamento non erano. Ma è evidente che se il congresso a mozioni contrapposte avesse l'effetto di risolvere le grandi scelte di fondo per poi passare oltre, questo effetto si sarebbe manifestato a Bologna e dappertutto. Non mi pare che sia stato così, almeno finora. E mi auguro che Bologna possa offrire questa possibile esperienza politica a un più ricco confronto congressuale».
Può riconoscere, però, che le differenze riproposte con le mozioni, addirittura due nella stessa area della sinistra, corrispondono a una reale articolazione dei Ds?
«So bene che le differenze ci sono, e considero importante affrontarle. Il problema è come. Lo ha detto ancheFassino: i Ds hanno superato l'angoscia della sopravvivenza, che tre anni fa aveva segnato il congresso di Pesaro...».
Quando lei era schierato con il correntone...
«Sì, quel dilemma quasi esistenziale richiedeva da ciascuno di noi risposte schiette, leali, responsabili. Ma siamo cresciuti, come Ds, anche grazie a quella autentica dialettica politica. Che adesso possiamo ben volgere al futuro, aprendo due anelli di congiunzione: da una parte, con quella parte della società sensibile ai valori della sinistra e, dall'altra, con gli alleati con cui costruire la prospettiva dell'alternativa. E, francamente, non credo che la modalità delle mozioni contrapposte sia la migliore risposta a questa esigenza. Certo, rende esplicite le differenze. Però, nel mettere in evidenza le differenze, che poi - come si è visto a Bologna - non sono tali da impedire la sintesi politica, lascia in un cono d'ombra gli elementi di unità. Che pure, prima o poi, bisogneràrecuperare».
Se è per questo, Fassino ha già proposto una gestione unitaria per il dopo congresso.
«Benissimo. Perché, allora, rinviare a dopo la sintesi nuova che sarebbe possibile cercare nel vivo del congresso?».
Non sarà perché è da compiere la scelta discriminante della Federazione con le altre forze riformiste della coalizione che, come si vede in questi giorni, suscita forti passioni e tormenti?
«Il fondamento di ogni grande scelta è nel progetto che la sostanzia. Purtroppo noi ci attardiamo tanto sulle forme, trascurando troppo i contenuti».
Non parlano da soli i contenuti divaricanti, tra la sinistra riformista e la sinistra radicale o antagonista, che hanno lacerato il centrosinistra nella legislatura vinta da Romano Prodi nel 1996 e, poi, anche in non pochi passaggi cruciali dell'opposizione a Berlusconi?
«Parlano, eccome. Non a caso al congresso di Pesaro richiamai le diverse idee del riformismo in cui si dibatte la sinistraitaliana. Ebbene, Bologna è la culla del riformismo italiano e qualcosa può dirci la radicata pratica amministrativa in cui storicamente le diverse sensibilità riformiste hanno un significativo banco di prova».
Idee diverse per una sola pratica riformista?
«Pensiamo all'idea riformista del socialista Zanardi, che abbiamo appena ricordato come il “sindaco del pane” nel cinquantesimo anniversario della morte, perché amministrando Bologna tra il 1914 e il 1919, si fece carico delle privazioni inaudite che la prima grande guerra mondiale provocava sui ceti popolari, organizzando la produzione o l'acquisizione del pane, del carbone e di altri prodotti vitali e vendendoli nella quantità e nella qualità corretta proprio qui, a palazzo D'Accursio, attraverso l'istituzione dell'ente autonomo di consumo. E pensiamo al sindaco Dozza quando si trovò come competitore Dossetti che nel suo programma presentava un'idea organica dei quartieri come luogo del decentramentoe della partecipazione: vinte le elezioni, Dozza riconosce la giustezza della proposta dell'avversario e la fa sua, realizzando la struttura dei quartieri che ancora oggi anima la vita democratica della città. Se si misurano con i parametri del dibattito politico di oggi, l'intervento nell'economia e nelle politiche sociali di Zanardi passerebbe per radicale, mentre la dialettica tra il riformismo di ispirazione laico-socialista di Dozza e quello di orientamento cattolico di Dossetti apparirebbe come moderato. Ma sono, in tutta evidenza, tratti distinti di una cultura riformista dalle comuni radici».
Ma perché non rendere evidente che è la comune vocazione riformista il nerbo del progetto alternativo?
«Se l'alveo è così vasto, e la cultura riformista tanto diffusa, i suoi diversi caratteri difficilmente sono comprimibili nella semplificazione a un solo soggetto. Si misurano sull'azione concreta. E nel concreto si scoprono trasversalità altrimenti nonspiegabili: sul valore identitario del grande tema della pace, per dire, abbiamo visto coagularsi una maggiore sintonia tra una certa cultura cattolica, che pure si vuole moderata, e la parte più radicale della sinistra. Ecco perché continuo ad avvertire come un limite una discussione astratta sulle forme dei soggetti politici».
Vale anche a parti invertite, ovvero la Gad come prioritaria rispetto alla Fed?
«Lasciamo perdere questi orribili acronimi. Andiamo alla sostanza della questione, ovvero di quale rappresentanza politica costruire, e come, in un sistema bipolare. Il maggioritario propone un luogo fisico per la convergenza, dovendo comunque esserci, in ogni verifica elettorale, una proposta che tenga insieme tutti per essere in grado di vincere. Quel che ti fa vincere, al dunque, è il programma. E se già i meccanismi elettorali spingono alla ricerca di una proposta comune, non si capisce perché questa debba essere un punto di approdo faticoso e nonun “a priori”. Rilevare questo dato non significa pretendere, da nessuno, la rinuncia alla propria idea. Ma vale la pena recuperare una riflessione».
Quale riflessione auspica?
«La Federazione, presentata in forme tutt'altro che lineari (prima la lista unica per le europee, poi la prospettiva del partito riformista e infine il ripiego cooperativo tra partiti e, alle prossime regionali, pure le liste diversificate), ha finito per alludere alla compresenza di due aree dentro lo schieramento vasto: una riformista e l'altra radicale. Se così fosse sarebbe l'idea del riformismo a soffrirne di più, perché inevitabilmente finirebbe per essere identificata come moderata, se non risultare sostanzialmente moderata nel dualismo con l'antagonismo di sinistra».
Non c'è anche da riflettere sulla frantumazione che priva il centrosinistra di un soggetto politico maggioritario, a cospetto di un centrodestra dominato dal partito pigliatutto diBerlusconi?
«Sono anch'io convinto, e non da adesso, che una coalizione abbia bisogno di maggiore coesione e di minore frantumazione. Ma non credo che la semplificazione e la riduzione abbia una sola opzione possibile. In ogni caso, non una opzione organizzativa che prescinda dalla qualità e dall'efficacia del progetto politico. Tanto più vista la situazione determinatasi in questi giorni, con le difficoltà delle liste federate alle regionali che vanno a cumularsi alle difficoltà sulle ultime candidature».
Nonostante queste tensioni possono essere interpretate alla luce delle persistenti differenze sul merito del progetto, oltre che della Federazione, anche dei rapporti all'interno della più larga alleanza?
«Ma proprio questo mi preoccupa: che si debbano interpretare le divergenze, e non dichiararle e discuterle in modo esplicito. Proviamo ad invertire i termini del dilemma. Se la fatica della individuazione delle residue candidature èaccentuata dal fatto che il confronto programmatico stenta, per cui la scelta del candidato moderato, riformista o radicale si carica di una diversità di merito politico, è questa condizione di sospetto che va tolta di mezzo. Come? Affrontando i contrasti per quel che sono, in modo trasparente, con tutte le mediazioni che si rendono necessarie. A quel punto sarà irrilevante chi rappresenterà il progetto, se moderato, riformista o radicale, perché la condivisione della candidatura sarà legata alla credibilità e alla capacità di meglio interpretare la sintesi condivisa. Perché altrimenti, volenti o nolenti, si torna alle condizioni del primo Ulivo, quando l’accordo elettorale fatto con Rifondazione senza progetto politico ha determinato il progressivo logoramento del centrosinistra».
Non basta che Bertinotti assicuri di riconoscere il pronunciamento della maggioranza, ora nelle primarie in Puglia e poi in quelle nazionali, prefigurando questa sede come dirimente delleopzioni programmatiche più controverse?
«Le primarie hanno una indubbia utilità per la legittimazione del candidato. Dubito, però, che sia risolutiva del merito di contrasti programmatici non precedentemente risolti. È questa la via maestra per arrivare al progetto condiviso che legittima tutti a candidarsi. Temo, anzi, che primarie sulle persone, che alludano implicitamente alle diversità rappresentate dall'appartenenza politica, finiscano per alterare la stessa costruzione del progetto, per l'evidente disparità tra il peso degli eventuali candidati alle primarie e la ben più articolata rappresentanza politico-elettorale dell'alleanza. Né mi convince il pur significativo impegno ad adeguarsi all'opinione della maggioranza, giacché comunque si sancirebbero gli elementi che diversificano il candidato vincente da quello che perde. E non credo si possa rinviare le verifica della necessarie mediazioni all'azione di governo, perché se le diversità rispuntassero a quel puntoporterebbero o alla paralisi o all'incrinatura dell'alleanza. Abbiamo, tutti noi, il dovere di garantire agli elettori che nulla di ciò che già ha pregiudicato la credibilità e la stabilità dei governi di centrosinistra potrà mai più ripetersi».
Sul terreno delle scelte programmatiche emergono anche diverse priorità. Quali ritiene possano unificare il vasto campo di forze del centrosinistra?
«Nello schema delineato da Prodi al Pallido di Milano credo che tutti abbiano la possibilità di contribuire ad un'idea di futuro. E' l'avvenire del paese che questo centrodestra sta sempre più brutalmente rovinando».
E' scontro su ogni fronte, ormai?
«Vengono progressivamente aggrediti sia i pilastri della coesione politica, dall'ordinamento della giustizia alle stesse regole costituzionali, sia le basi della coesione sociale, con una sistematica alterazione dei meccanismi di formazione e di redistribuzionedella ricchezza che crea nuove disparità e ingiustizie...».
Rispunta anche l'attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Come a ideologizzare il finale di partita?
«Possibile, anche se allo stato sembra essere più l'espediente revanscista di un ministro marginalizzato che il colpo di coda delle pulsioni assolutiste di un tempo. È comunque un segno dei tempi che le associazioni imprenditoriali non avallino più tanto avventurismo».
Vuol dire che si stanno scomponendo e ricomponendo i blocchi sociali?
«Che il centrodestra non poggi più sul blocco di interessi del 2001 è, in qualche modo, confessato dal gran agitarsi di Berlusconi per un taglio delle tasse esplicitamente incapace di rilanciare l'economia. Ma parliamo della costituzione materiale del paese, ed è del tutto evidente che attraverso questa pesante redistribuzione si punta anche a disarticolare il campo delle forze avversarie. Per questo la nostra azionedi contrasto, e - perché no - anche di contenimento del danno per il paese, deve essere resa subito efficace da un'idea di alternativa credibile. Affrontare questa sfida è compito di tutte le forze del centrosinistra. E i Ds, che come partito di maggioranza relativa hanno una parte cospicua da assolvere».
Con il congresso?
«Sì, i Ds possono, meglio: credo proprio che debbano, fare del loro congresso l'occasione per ricreare un clima di unità e suscitare nuove passioni».Intervista sull'Unità28-12-04

 

 


 









   
 



 
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