Il ciclone fa strage Birmania nel caos
 







di Marina Forti




I testimoni descrivono scene di desolazione e anche le notizie più o meno ufficiali parlano di un disastro di proporzioni catastrofiche. Il ciclone tropicale Nargis si è abbattuto sabato su Myanmar (la Birmania) lasciandosi dietro una scia di devastazione e di morte: si parla di oltre 13mila morti e dispersi, e centinaia di migliaia di persone senza un riparo. Un disastro di dimensioni tali da spingere la giunta militare che governa la Birmania a un gesto raro: sembra che ieri abbia accettato qualche aiuto della comunità internazionale.
Il bilancio è provvisorio. Il ciclone ha investito, con rovesci d’acqua e venti a 190 chilometri l’ora, l’intero delta del fiume Irrawaddy e gli stati Mon e Karen: la regione più fertile del paese, «scodella di riso» della Birmania. Allo stesso tempo è un bilancio ufficioso, perché i media di stato parlano di 3,394 morti, anche se citano solo due delle 5 province ora dichiarate in stato di «calamità naturale».
Le dimensioni deldisastro sono emerse nel pomeriggio di ieri quando il ministro degli esteri birmano Nyan Win ha riunito gli ambasciatori stranieri: «Ci hanno detto che la loro stima provvisoria è di circa 10mila morti e tremila dispersi», ha poi riferito uno degli ambasciatori all’agenzia Reuter.
Dov’è l’esercito?
Tre giorni dopo il ciclone, dalla ex capitale Yangoon (Rangoon) arrivano ormai molte testimonianze, raccolte un po’ dalle agenzie di stampa, un po’ da attivisti e giornslisti birmani fuoriusciti in Thailandia e in India. «Molte città e piccoli villaggi nella provincia di Irrawaddy sono rasi al suolo. Corpi giacciono in mucchi. In alcuni casi è perfino difficile dire dove era un villaggio», riferisce on line The Irrawaddy, pubblicato a Chang Mai (Thailandia). Rangoon e la regione colpita sono senza energia elettrica e anche i collegamenti internet sono interrotti da sabato: le notizie arrivano attraverso precarie telefonate. Ne risulta un bollettino di villaggi distrutti e disopravvissuti che si arrangiano da sé, senzatetto accampati in scuole e monasteri: «Non è arrivato nessuno ad aiutarci. Gli abitanti cercano di procurarsi acqua e un po’ di cibo come possono», riferisce un abitante di Laputta, provincia di Irrawaddy. Altri testimoni, citati da Mizzima News, dicono di aver visto centinaia di cadaveri lungo le strade.
Qualche notizia in più arriva dalla ex capitale, che con i sobborghi fa circa 5 milioni di abitanti. Ma neanche qui si vedono soccorsi organizzati. «Non so dove siano le truppe, che in settembre hanno picchiato i manifestanti pacifici, perché ora non possono venire ad aiutare le vittime del ciclone», chiede una abitante di Rangoon al sito The Irrawaddy. E’ la stessa domanda che si pongono abitanti e negozianti di Rangoon citati dall’agenzia Reuter.
Dalle testimonianze risulta che tre giorni dopo il passaggio del ciclone, ieri solo comuni cittadini e gruppi di monaci erano per le strade di Rangoon a cercare di sgomberare le macerie egli alberi divelti dal vento. Altri cercano di riempire tank d’acqua nei laghi, perché i rubinetti sono a secco. Un medico dice che molti feriti sono arrivati alla sua clinica, ma da soli. Le autorità hanno ripulito solo i quartieri di élite.
Intanto a Rangoon i prezzi sono schizzati in alto: riso, olio alimentare, uova costano anche il doppio del normale, così pure candele, pile e benzina. E tutto comincia a scarseggiare.
Strage nel carcere
Ieri è anche trapelata notizia di un episodio atroce avvenuto sabato nel carcere Insein, la famigerata prigione di Rangoon: le guardie carcerarie hanno aperto il fuoco sui prigionieri, lasciando 36 uccisi e una novantina di feriti. Secondo le notizie raccolte da un’associaizone per la protezione dei prigionieri politici, quando il ciclone ha investito la città i prigionieri sono stati lasciati al loro destino. Qualcuno ha acceso un fuoco per scaldarsi, forse è scoppiata la protesta, poi il caos: è allora che militari e polizia hannoaperto il fuoco.
Centinaia di migliaia di persone ora hanno bisogno di riparo, acqua potabile, e poi aiuto per ricostruire.
Il governo birmano «ha indicato la volontà di accettare assistenza internazionale attraverso le agenzie dell’Onu», ha annunciato ieri un portavoce del Programma alimentare mondiale.
Due bastimenti carichi...
E’ un «cauto segnale verde», dice il portavoce: ma non è chiaro se e come sarà permesso al personale internazionale distribuire gli aiuti. Le offerte di assistenza sono numerose. L’India ha già inviato due navi cariche di derrate alimentari, tende, coperte, medicinali. Un aereo cargo C-130 è arrivato dalla Thailandia. Gli Stati uniti e l’Unione europea hanno offerto assistenza - la casa Bianca precisa che i suoi siuti «non andranno direttamente al governo». Il disastro naturale costringerà infine la giunta birmana a aprire un po’ il paese? alla vigilia del referendum (vedi in questa pagina), c’è da dubitarne.de Il manifesto









   
 



 
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