Se il papa dà lezione di morale laica
 











Una volta i papi definivano dottrine e fissavano norme e orientamenti morali in documenti scritti accuratamente elaborati: bolle (in latino), costituzioni, lettere pastorali. Papa Francesco lo fa in conversazioni, telefonate, consigli personali, prediche. La predica della Messa è un genere letterario che il Concilio di Trento affidò al compito del buon parroco. Dunque è parlando come un buon parroco che papa Francesco, durante la Messa del giorno di San Martino, ha definito uno scandalo rubare allo Stato per dare alla Chiesa. Ma papa Francesco non è un parroco, è il vescovo di Roma, il capo della Chiesa cattolica e la sua opinione conta qualcosa nella vita e nel funzionamento di una grande religione mondiale che è anche parte fondamentale della storia e della società italiana.
Questa opinione, poi, tocca un punto antico e nodale del rapporto tra l’essere cristiano e l’essere cittadino. Un punto dolente: che cosa accade quando ilcattolico va a confessare le sue colpe? Se lo sono chiesti in tanti. Non c’è inchiesta sulla confessione che non si sia domandata se nel segreto del confessionale si parli anche di evasione fiscale e quale sia la risposta del confessore. Da oggi sappiamo che cosa ne pensa il papa: chi froda il fisco, chi evade le tasse e crede di salvarsi l’anima perché dona generosamente alla Chiesa è il sepolcro imbiancato di cui parla Cristo nel Vangelo; peggio, è colui contro il quale Gesù ha pronunziato l’unica condanna senza appello che si legga nei Vangeli, quella contro i colpevoli di scandali. La cosa è degna di attenzione specialmente in Italia. Non pagare le tasse è un diritto, ha detto non molti anni fa un noto imprenditore e speculatore finanziario diventato presidente del Consiglio. E con questo ha raccolto consensi elettorali e benedizioni di una dirigenza ecclesiastica grata per i soldi che dall’evasione fiscale e dai trattamenti di favore affluivano nella sua banca centrale. Mal’importanza della omelia di papa Francesco va molto al di là della cronaca italiana. Vale la pena di ripercorrerla.
Il discorso di papa Francesco è stato fatto nel giorno di San Martino, il popolarissimo santo francese la cui leggenda rapì il cuore del cristianesimo mequillizzare dievale. Non per niente il suo nome e la sua immagine hanno superato i confini delle culture nazionali e si sono iscritte sulle facciate delle cattedrali. È là che si trova eternato nel marmo il gesto del cavaliere che divide con la spada il suo mantello e ne dà la metà al povero inchinato davanti a lui: parabola del rapporto tra poveri e ricchi dove la carità evangelica suggerisce e anticipa l’ideologia rivoluzionaria che vuole una divisione egualitaria dei beni del mondo tra gli esseri umani. Un’ideologia mai così impopolare come in questi tempi. Ebbene, proprio nella breve estate di San Martino, all’inizio di un inverno che si annuncia durissimo per i poveri, papa Francesco ha pronunziato un’omeliaassai singolare. Seguendo il testo del Vangelo secondo Luca, (17, 1-4), il papa ha cominciato richiamando il dovere del cristiano di perdonare. Un tema antico, così tradizionale nel cristianesimo da apparire scontato. Ma accanto al perdono questa volta c’è stata una condanna durissima, senza appello, contro i cristiani dalla doppia vita, quelli che con una mano rubano allo Stato e con l’altra danno alla Chiesa. Chi pensa di essere così un benemerito della Chiesa deve sapere – ha detto il papa – che è un sepolcro imbiancato. È una doppiezza di vita che merita «che gli mettano una pietra al collo una macina da mulino e sia gettato in mare» . La torsione del passo evangelico è deliberata e rivela la drammaticità e l’intensità con cui papa Francesco sente il problema della corruzione generale: «cristiani corrotti, preti corrotti». Primo dovere è «pagare le tasse allo Stato e la giusta mercede ai loro dipendenti». Chi non lo fa ruba: «allo Stato, ai poveri». Si noti l’associazione dei duetermini, del tutto insolita in una Chiesa che si è sempre considerata unica detentrice del tesoro dei poveri.
Con queste parole di papa Francesco sembra cadere in disuso l’antica e accanita guerra condotta dalla Chiesa contro lo Stato, quella che consentiva ai confessori di sciogliere i fedeli dall’osservanza delle leggi, malgrado il precetto evangelico che recita «Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è Dio». Fin dalle origini medievali degli stati europei potere politico e potere ecclesiastico si sono scontrati sul fronte del fisco. Assolvere in confessione gli evasori fiscali e trani loro scrupoli è stata una pratica generalizzata che ha conosciuto solo rari dissensi nella teologia morale. Per secoli l’assoluzione sacramentale ha aperto la via del Paradiso agli evasori fiscali e agli affaristi senza scrupoli: unica condizione, un superficiale pentimento e soprattutto generosi lasciti e donazioni alla Chiesa. Secondo il dotto canonista spagnolo del ’500 Martin deAzpilcueta, si poteva mentire e frodare il fisco senza commettere peccato, contando sul perdono in confessione e sulla cancellazione di ogni censura. Eppure c’era stata all’inizio e sopravvisse a lungo un’idea molto alta del dovere di pagare le tasse. La cultura giuridica medievale sostenne che accanto alla sacralità e intangibilità dei beni di Cristo gestiti dalla Chiesa per soccorrere i poveri, c’era quella dei beni dello stato. Come ha raccontato il grande storico Ernst H. Kantorowicz, nei pareri dei giuristi Cristo faceva rima con Fisco: il “santissimo” Fisco. Santo perché i beni del fisco erano i mezzi per garantire gli obblighi primari dello stato: la sicurezza e il benessere del popolo.
Oggi nel paese cattolico per eccellenza che è la nostra Italia la morale pubblica, quella che si chiama talvolta l’etica civile per distinguerla dalla morale religiosa, soffre di un vizio incallito: il rifiuto del valore fondante del rispetto delle leggi, in particolare di quelle cheriguardano il dovere di pagare le tasse mettendo in condizione lo stato di tutelare i meno garantiti. È una malattia che mina religione e stato. Machiavelli ha scritto qualcosa a questo proposito. Da noi solo quello della Chiesa è considerato un tesoro dei poveri; e nemmeno gli abusi finanziari della banca vaticana hanno scosso questa convinzione.
C’è di più: sulle basi di una dottrina ribadita dal papato e dal clero della Controriforma si è avuto in Italia un conflitto feroce tra il papa come re detronizzato e lo stato liberale. Dal 1870 fino al 1929 e oltre le parrocchie hanno diffuso in Italia un’idea di fedeltà alla Chiesa nutrita di disprezzo e di rifiuto per lo Stato. Né valse a cambiare le cose la Conciliazione del 1929, con l’annessa montagna di soldi finita nelle casse del Vaticano (e da allora materia di scandali infiniti, quelli a cui pensava probabilmente papa Francesco con la sua dura condanna). Oggi la musica è cambiata: forse si avvicina il giorno in cui vedremo iconfessori negare il perdono a chi non paga le tasse. E non sarebbe male se anche lo Stato cominciasse a fare la sua parte: per esempio, abolendo almeno l’esenzione fiscale che ancor oggi premia tutte le proprietà immobiliari dove in nome di Cristo e della Chiesa si gestiscono alberghi, scuole, università, ospedali. Ne guadagnerebbe la salute della morale pubblica.  Adriano Prosperi, da Repubblica, 14 novmebre 2013









   
 



 
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