Le catene si stringono
 











Come si chiama quel bicchiere che più lo si svuota e più si riempie? Nessuno alza la mano? Bene, ecco la risposta: è il “debito pubblico”. O almeno, così vorrebbero farci credere i governi della fame che si sono susseguiti, nel corso degli ultimi anni, all’amministrazione della colonia italica.
Quel debito pubblico sul cui altare, quotidianamente, sacrifichiamo pezzi di sovranità e in base al quale regoliamo l’agenda politica di una nazione costretta, peraltro,  a dover passare sotto le forche caudine dei meccanismi di controllo (“stabilità”, la chiamano) dell’Ue. Quel debito pubblico che, a detta dei politicanti (e a rigor di logica) dovrebbe ridursi diminuendo la spesa pubblica o aumentando le entrate fiscali.
I tagli alla spesa pubblica sono oramai all’ordine del giorno: la sanità pubblica è in ginocchio (è di oggi la notizia del taglio di 1500 posti letto ospedalieri nella sola regione Sicilia), nella scuola pubblica si fa fatica agarantire la mera retribuzione del personale docente e non docente. I consulenti del Fmi, cui il governo Letta ha spalancato le porte, stroncano sul nascere ogni entusiasmo di facciata del Ministero dell’economia: occorre tagliare, flessibilizzare, contenere la spesa.
Se sul fronte delle dismissioni dello Stato sociale siamo oramai al bollettino di guerra, sul fronte delle imposizioni fiscali non va così meglio. Nel girone dantesco dell’arzigogolo burocratico e delle mille sigle (Tares, Tasi, Tari, Iuc), non si contano più le attività commerciali e artigianali costrette alla chiusura e i cittadini e le famiglie condannate alla disperazione o al suicidio per insolvenza.
Meno spese, più entrate, vincoli di bilancio. E il debito pubblico, invece che diminuire, incrementa. In un solo mese, da settembre a ottobre, secondo i dati statistici comunicati dalla stessa Banca d’Italia, di ben 18 miliardi, toccando la irrazionale cifra di 2085 miliardi di euro.
Ci sarà a Roma un maestro dialgebra capace di spiegarci il perché. Ci sarà qualcuno che non penserà di risolvere il problema restituendo due milioni di euro di indennità parlamentari (lo 0,001% dell’incremento mensile della nostra situazione debitoria). Ci sarà qualcuno che ricordi che “pagare un debito di moneta con altra moneta emessa a debito è impossibile” .  Occorre, sì, riprenderci il futuro, come in tanti hanno urlato in questi giorni nelle piazze: ma non sarà possibile senza riappropriarci innanzitutto della nostra moneta, spezzando definitivamente i tentacoli alla piovra bancaria.
Era scritto su uno striscione oggi in piazza: “il Sole non sorge a Bruxelles”. Fabrizio Fiorini









   
 



 
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