«Il cielo era cupo, non per le nuvole ma per il calore intenso. All’improvviso cominciarono a sparare, sempre più forte, poi arrivarono le cannonate e fuggimmo. Da allora non ho più visto casa mia». Così Maher Shafai, sistemato con la famiglia in un’aula di una scuola dell’Onu a Beddawi, la scorsa estate ci raccontava quel 20 maggio di un anno fa quando a Nahr al Bared, a nord di Tripoli, esercito libanese e Fatah al Islam cominciarono una sanguinosa battaglia che si sarebbe conclusa dopo quasi quattro mesi. Un lungo confronto armato che sarebbe costato la vita di decine di profughi, di centinaia di miliziani qaedisti, di 166 soldati e la distruzione di gran parte del campo profughi dove vivevano 35mila palestinesi. Maher Shafai, un muratore, non l’abbiamo incontrato l’altro giorno a Nahr al Bared «Jadid», la zona «nuova» devastata solo in parte da bombardamenti dell’artiglieria e dove circa 250 famiglie di sfollati hanno trovato alloggio nei minuscoli containerallestiti dall’Urnwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Probabilmente è ancora a Beddawi, nella scuola, o forse vive in uno dei garage di Tripoli che ospitano tante famiglie di Nahr al Bared. E’ passato un anno dall’inizio dell’assedio e tra promesse di aiuti milionari e progetti di ricostruzione ancora fermi, i 35mila profughi continuano a vivere in una situazione penosa, aggravando le già difficili condizioni di vita dei loro fratelli di Beddawi. Senza dimenticare l’ostilità della popolazione libanese, certa che la responsabilità della morte di tanti soldati sia solo dei profughi di Nahr al Bared nonostante le indagini abbiano dimostrato che in Fatah al Islam i palestinesi erano solo una esigua minoranza, e che il grosso dei miliziani era giunto in Libano - talvolta passando per l’aeroporto di Beirut - da Arabia saudita, Siria, Yemen e tanti altri paesi arabi. I libanesi del nord fingono di non sapere che il leader di Fatah al Islam, Shaker Abssi, e molti deisuoi uomini avevano frequentato indisturbati Abu Samra, il quartiere che i salafiti locali - che si proclamano fedeli al capo della maggioranza di governo, il sunnita Saad Hariri - hanno trasformato in un emirato islamico non dichiarato. In Nahr al Bared quelli di Fatah al Islam erano finiti approfittando anche delle ambiguità di qualche fazione palestinese locale ma soprattutto grazie all’accordo del 1969 tra il Libano e l’Olp che proibisce alle forze di sicurezza libanesi di entrare nei campi profughi. Il «ritorno» a casa degli sfollati di Nahr al Bared non dispiace invece ai libanesi proprietari delle terre di «Jadid»", la parte nuova del campo, dove i progetti di ricostruzione hanno fatto lievitare i prezzi dei terreni. Ora si fregano le mani i manager del cemento e quelli che anni fa pensavano di aver commesso un errore permettendo ai palestinesi di edificare nuove case all’esterno del Nahr al Bared originario. Ma i palestinesi sanno darsi da fare. Dopo aver superato il postodi blocco militare e aver fatto ingresso nel «Jadid» spacciandoci per cooperanti di una ong (Nahr al Bared resta vietata ai giornalisti), ci appare davanti agli occhi non solo l’immenso e terribile cumulo di macerie e detriti della parte originaria del campo ma anche la laboriosità degli abitanti che cercano di riprendere a vivere. Ai piani inferiori di palazzi sventrati dalle cannonate, qualcuno ha rimesso a posto un stanza o due e aperto un negozietto. C’è il mini-market «Jumaa» accanto all’«Hisham» che vende frutta e verdura, c’è l’ambulante che serve spremute di arancia e di limone ma anche il «Salon Amr», il barbiere che però deve fare i conti con la mancanza di elettricità. E a dare una mano alla popolazione ci sono anche il lavoro e la solidarietà internazionale. Il Ciss di Palermo, ad esempio, porta avanti un progetto di sostegno a 200 famiglie di Nahr el-Bared, nel quadro del programma Ross (Riabilitazione, Occupazione, Servizi, Sviluppo - della Cooperazione italiana). Perquattro mesi il Ciss e l’associazione locale «Children and Youth Center» hanno lavorato e infine realizzato un asilo, con un centinaio di bambini, che è diventato anche uno dei pochi luoghi di incontro del campo, dove poter trascorrere qualche ora di serenità. Accompagnati dalla musica di una bellissima tastiera elettronica giunta non si sa da dove, i bambini recitano poesie e cantano brani della tradizione palestinese) mentre ragazzi e ragazze si esercitano nella «dabke», la danza mediorientale. Supervisiona la direttrice, Sukaina al-Anain, divenuta nota a Nahr al Bared anche per la sua abilità ai fornelli e che ci tiene a mostrare il libro con le sue ricette. «E’ bello vedere questa gente che vuole tornare alla vita - commenta Alfredo Lo Cicero, il cooperante che segue i progetti del Ciss a Nahr al Bared - in Libano gli sforzi della cooperazione a favore dei palestinesi sono importanti ma tutti gli aiuti sono destinati a non avere sostenibilità nell’azione e nel tempo semplicementeperché il governo libanese non riconosce nessun diritto ai palestinesi. Quando registriamo un miglioramento temporaneo o parziale della popolazione vittima della guerra, dobbiamo poi arrenderci di fronte alle messe in scena di cui patiscono gli effetti migliaia di persone». Il cooperante italiano si riferisce alle famiglie che sono state trasferite nei container pagati dall’Ue e dall’Unrwa. «A sentire parlare di centri di accoglienza - commenta Lo Cicero - si pensa ad un riuscito progetto d’ingegneria edile ma a vederli sul campo ci si rende conto che non sono altro che dei container di appena 17 mq, ad ambiente unico che ospitano fino a sei persone». E nel ghetto «made in Unrwa» di due piani di containers, dove l’elettricità è disponibile solo poche ore al giorno e l’acqua non viene erogata, dove non va alcun assistente sociale o psicologo, dominano la rabbia e la frustrazione. Dormire è un lusso poiché le sottili pareti di metallo delle cosiddette «unità abitative» vibrano adogni passo di persona. «Qui fa freddo d’inverno e caldo d’estate, viviamo in condizioni durissime», si lamenta Abed, 25 anni. «Vorrei sposarmi ma i libanesi non mi fanno lavorare e poi in queste affollate scatole di metallo non possiamo neppure fare l’amore», aggiunge Fares, 26 anni, tra le risate amare dei suoi compagni. Ahmed Hajj Mohammed, 57 anni, denuncia il Libano. «Ho lavorato per quarant’anni in questo paese e lo stato non mi ha riconosciuto nulla quando ho perduto la casa», dice mostrando le mani ruvide. Bilal, 23 anni, ha solo un sogno: «Datemi un biglietto aereo ed un visto e me ne andrò per sempre da questa parte del mondo». E’ l’anniversario della Nakba ma tra i palestinesi richiusi nel ghetto di metallo di Nahr al bared nessuno invoca «diritto al ritorno», la terra d’origine è sempre più lontana. Il progetto che qualcuno ha avviato 60 anni fa comincia a dare i suoi frutti.de Il Manifesto
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