La mafia a bilancio

 







di Marco Nebiolo




La fine della strategia stragista e della contrapposizione frontale allo Stato ha cancellato la mafia dalle prime pagine dei giornali e dalle priorità dell’agenda politica. Gli esperti del settore però – anche dalle pagine di questa rivista – hanno sempre messo in guardia da facili trionfalismi: si ammazza di meno, ma l’assenza di omicidi eccellenti non significa che le organizzazioni mafiose non stiano continuando ad arricchirsi e a conquistare posizioni di potere.
I dati pubblicati nel VII rapporto di Sos Impresa – intitolato "Le mani della criminalità sulle imprese" – parlano chiaro: il condizionamento mafioso sulla libera attività imprenditoriale è in aumento e riguarda tutti i settori – l’industria, il commercio e il mondo dei servizi, il settore agricolo. Ogni ora passano dalle mani dei commercianti a quelle dei mafiosi 2 milioni e 600mila euro. Lo strumento per esercitare capillarmente il controllo dell’economia sul territorio? Quello classico: l’estorsione.
 
La tassa dell’antiStato
L’imposizione del pizzo è l’attività tipica delle mafie. Consente ingenti entrate ad un rischio molto ridotto, grazie alla tecnica del "pagare poco, ma pagare tutti". Lo scopo degli estortori è quello di entrare nel più alto numero di aziende evitando di suscitare allarme sociale.
Attualmente sono 160mila i commercianti taglieggiati, che versano nelle casse delle criminalità 5 miliardi euro (10mila miliardi di vecchie lire) ogni anno. Il fenomeno è più diffuso nelle 4 regioni ad alta presenza mafiosa (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia). I dati forniti da Sos Impresa stridono, in parte, con le affermazioni ottimistiche circa il presunto arretramento della mafia in alcune regioni del Mezzogiorno, presenti nell’ultima relazione della Commisione parlamentare antimafia (cfr. "Narcomafie" 10/2003, pag.11). In quella relazione si parlava di una situazione in netto miglioramento in Puglia e nelle regioni centro-orientali della Sicilia. Secondo l’ultimo rapporto, però, ci sono zone dell’hinterland di Bari e Foggia nelle quali la quasi totalità delle attività commerciali, della ristorazione e dell’edilizia sono soggette al pizzo. In Sicilia, soggette al racket sarebbero anche l’80% dei negozi di Catania e
Palermo, con punte più elevate nel territorio di Gela. Stesso discorso vale per Calabria e Campania: sono taglieggiate il 70% delle imprese di Reggio Calabria e il 50% di quelle di Napoli, con situazioni ancora più gravi nella Locride e nella zona dell’Agro-Aversano. Questi dati vanno letti con particolare allarme, anche perché l’estorsione è, per sua natura, un reato sommerso e il numero dei reati non denunciati è più alto nelle zone in cui la presenza mafiosa è più pervasiva e l’omertà più diffusa. Senza contare che alcune imprese non sono soggette al pizzo semplicemente perché sono già controllate, direttamente o indirettamente, da famiglie mafiose.
Nelle zone centrali e settentrionali della penisola l’attività estorsiva è legata alle infiltrazioni delle mafie tradizionali.
La criminalità pugliese agisce nell’area metropolitana di Pescara e Teramo, ma sue diramazioni si trovano su tutto il versante adriatico della penisola. Gruppi camorristici sono presenti nella zona dell’Agro Pontino e del litorale romano. Il clan casertano dei Casalesi esercita la sua influenza nella zona di Cassino, ma si è spinto fino alle province di Modena e Bologna.
Ma è nel Nord che il racket è sempre più capillarmente diffuso. In Lombardia sono segnalate attività estorsive in espansione da parte di famiglie della ’Ndrangheta, specialmente nell’hinterland di Milano e nella zona sud-ovest della provincia, nella Brianza e nel Lecchese. Anche in Piemonte è segnalata la presenza di famiglie calabresi nel torinese, in Val di Susa, nell’alto Verbano e nella Val d’Ossola. Di recente si segnalano tentativi di infiltrazione della ’Ndrangheta in Val d’Aosta.
Da un punto di vista delle estorsioni è più tranquilla la zona del Veneto, dove la malavita sembra più interressata alla gestione del traffico di stupefacenti e dell’immigrazione clandestina, mentre in Friuli recenti operazioni delle forze dell’ordine hanno evidenziato la presenza di gruppi camorristici e della Sacra Corona Unita.

Il cavallo di ritorno
Ma che cosa significa concretamente pagare il pizzo? Esistono tre modalità: il pagamento concordato, il contributo all’organizzazione e le dazioni in natura.
Con il pagamento concordato viene pattuito una rata periodica (mensile o
settimanale) da versare all’organizzazione. L’importo viene stabilito in base al giro d’affari dell’impresa taglieggiata: di solito la cifra oscilla tra i 150 e i 500 euro alla settimana. Nel settore dell’edilizia viene richiesta una quota per ogni vano costruito, mentre negli appalti pubblici l’impresa appaltatrice deve pagare una percentuale sul valore totale dell’aggiudicazione.
Per contributo all’organizzazione si intende il pagamento di determinate somme di denaro a emissari delle organizzazioni criminali che richiedono "un contributo" con le scuse più varie: il finanziamento della festa del patrono, della squadra di calcio locale etc. A volte si richiede esplicitamente denaro per il sostentamento dei familiari dei carcerati o per il pagamento delle spese legali.
Infine, le dazioni in natura. Si va dal cambio assegni (si chiede di cambiare in contante un assegno che la vittima di turno sa di non potere incassare), al pagamento di determinate spese della "famiglia" (per esempio, quelle di organizzazione di un matrimonio), alla consegna di parte delle merci o dei servizi prodotti o scambiati nella propria impresa.
Un nuovo genere di estorsione in fase di diffusione è il cosiddetto "cavallo di ritorno", che consiste nel furto di automobili, trattori agricoli, furgoni o camion allo scopo di estorcere un riscatto ai proprietari. La cifra richiesta per la restituzione del mezzo varia a seconda del valore dello stesso e oscilla tra i 250 e i 10mila euro.
Un’altra forma di estorsione indiretta è quella di costringere gli imprenditori ad acquistare merci o materie prime (a prezzi imposti) da determinati fornitori, ovviamente mafiosi. In questo modo si limita l’operatività dell’imprenditore che non può più muoversi liberamente sul mercato, ma deve sottostare ai diktat delle organizzazioni criminali.

Il cappio si stringe
L’altra emergenza gravante sul mondo dell’impresa è l’usura: una piaga in espansione, favorita dalla crisi economica, dal generale impovermento della classe media e da alcune rigidità del sistema di elargizione del credito da parte del sistema bancario.
Oltre alla figura classica di strozzino che agisce in proprio al fine di riscuotere interessi elevatissimi, si sta sviluppando una nuova
tipologia di struttura usuraia, il cui fine è quello di acquisire i beni e le imprese delle vittime, sia attraverso l’intimidazione e la violenza, sia attraverso il riciclaggio di denaro sporco. Questa forma di usura è pratica prevalentemente da associazioni di stampo mafioso.
I commercianti sono la categoria più a rischio: secondo una recente rilevazione della Confesercenti, sarebbero 135mila i commercianti caduti nella rete dello strozzinaggio – che nel complesso pagano agli usurai un tributo di 9 miliardi euro –, cioè il 45% del totale delle vittime dell’usura. Seguono altri imprenditori (19%), artigiani (18%), ma anche lavoratori dipendenti (13%) e liberi professionisti (5%).
La cifra di apertura del credito è solitamente bassa: nel 59% dei casi il primo prestito non supera i 10mila euro, ma nel 46% dei casi il debitore – tra ulteriori prestiti e interessi – si trova a dover restituire più di 51mila euro. Per quanto riguarda gli interessi, in media si parte da un tasso del 150% annuo (nel Nord è più alto, 20% al mese), ma in molti casi si arriva al 500% annuo.
Il ricorso al prestito usurario si rivela in molti casi esiziale per il destino della propria impresa: il 23% degli imprenditori che ricorrono all’"aiuto" degli strozzini o fallisce o è costretto a cedere a terzi la propria attività. Per gentile concessione di Narcomafia.









   
 



 
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