La nostra scelta chiara e irrinunciabile, che va di là da una posizione puramente politica o sociale, poiché aderente alla nostra concezione umana più intima, è quella anticapitalistica. Non crediamo che alla negazione di qualcosa non corrisponda mai un valore, che se ne dica, nello specifico vediamo un valore, in quest’opposizione noi rileviamo il nostro principio propositivo. L’anomalia umana del nostro tempo post-moderno è per l’appunto il capitalismo anche quando mascherato, come ha scritto John Kenneth Galbraith, con il nome di mercato. Per onestà intellettuale quando parliamo di “necessità di mercato”, dobbiamo intendere perciò “necessità del capitalismo”. Appena qualche decennio fa, per pudore, sindacati, partiti e intellettuali (la coscienza infelice di sinistra), avevano qualche remora nell’abbracciare l’economia di mercato come scopo unico dell’umanità, dovendo per inerzia rispondere a una residuale interpretazione della parte.Oramai anche quest’ultimo velo è stracciato. Il passaggio alla monocratica ideocrazia capitalistica è avvenuto completamente in modo indolore e senza resistenza alcuna, e tutto, come le merci, fila liscio come l’olio. Paradossale e imbarazzante è assistere a quelle conferenze d’intrattenimento, dove gli attori di cui sopra, discutono sui mali della società, della povertà e della solitudine, presentando cause inconsistenti e pretestuose a un pubblico d’indifferenti, tutti del resto felici ed assorti in un fiero nichilismo che pervade chi parla e pure chi ascolta. Il principio stesso dell’anticapitalismo è la condizione per l’uscita dalla disintegrazione del momento, dove la sua negazione non è un “non valore” giacché va a negare un sistema che è di per sé negativo per l’uomo e che merita d’essere superato. La doppia negazione è positiva, quindi un valore propositivo. La crisi non è solo una crisi economica semplicemente perché il capitalismo, suo responsabile, non riguarda solo taleambito, esso è onnicomprensivo, e strutturato in modo tale che pur partendo dalla prospettiva economica, fagocita tutto il resto annichilendolo, ad esso tutto è subordinato non rimane niente al di fuori, in questo senso è globale. L’anticapitalismo è un valore progettuale, d’inizio sintesi, il nuovo cominciamento, che vuole ricondurre l’uomo smarrito a sé, in modo arricchito dal ciclo condotto. L’anticapitalismo reca il seme dell’uomo ritrovato e della comunità. Una tale presa di posizione vuole oggi essere passata come una scelta fuori dal tempo, da guardare con sospetto, da ritenere antistorica, nella migliore delle ipotesi superficiale e retrò. La consistenza di ciò, a prescindere della smarrita socialità umana, trova un presunto spessore nella concezione del tutto positivistica del tempo inteso lineare e rettilineo. La società capitalistica incoraggia questa interpretazione temporale per cui ogni attimo finisce passivamente per diventare il boccone di quello successivo, ognioggetto chiama quello dopo rendendo il primo superfluo. Ogni attimo non ha più la possibilità d’essere ritrovato né nell’immediato, né nel futuro. Per la società delle merci, famelica e materialistica, anche il tempo è consumistico e irreversibile. Seguendo questa serie irripetibile, l’anticapitalismo è stato associato in un tutt’uno ai sistemi totalitari del XX secolo, che, oltre ad essere bollati come demoniaci, fanno parte di un passato non più, per rigore assiale, riproponibile. Incongruente appare in questa stessa visione temporale il fatto che esistano poi, anzi sopravvivano bellamente, individui e organizzazioni, estreme e meno estreme, a quelle due fazione che con evanescenza politica si definiscono destra e sinistra, e che hanno come unico scopo di vita l’anti-comunismo o l’anti-fascismo. A questi paladini della libertà, soprattutto i primi “i destri “ della serie “il comunismo non passerà”, e della democrazia, soprattutto i secondi “i sinistri” dello stampo “bella ciao”(libertà e democrazia economica sottinteso), è il caso di suggerire che il comunismo, come il fascismo, oltre a non passare sono nel frattempo anche deceduti. Ovviamente rigettiamo una simile interpretazione del tempo lineare a mezzo servizio, fautrice soltanto del tentativo di eterizzare il capitalismo e di naturalizzarlo al fine di renderlo invulnerabile. L’unico legittimo, concreto e reale “anti” è quello al capitalismo, gli altri come detto altrove fanno solo parte delle “camere di decompressione”. Attraverso la lente idealista, il capitalismo rimane ed è comunque un oggetto davanti a noi, da non rispecchiare in modo passivo perché preesistente, ma di cui bisogna prenderne coscienza, avendo poi la forza di negarlo per avere un ritorno autocosciente. La grande capacità rigenerativa di questo sistema, anche nella sua espressione post- moderna quella del capitalismo finanziarizzato, è tale da proporsi in forme filantropiche e di carità. Il capitalismo dal volto umano è taleda indurre all’illusione di prestarsi a riforma, quando nella sostanza persegue il signoraggio del mondo, con un carattere sempre assoluto e volgare, ponendosi comunque come unico orizzonte, saturando ogni aspetto, culturale, politico, umano partendo dalla sola prospettiva economica. E’ questo peso, questa imposizione che subiamo come uomini e come popoli, non ce ne sono altre, ad esso dobbiamo opporci. La nostra resistenza in tal senso si deve aprire alla ricerca continua di spazi e risorse capaci di avere in ciò un comune punto di vista da cui partire. Non deve passare inosservato l’ultimo libro di Diego Fusaro “Idealismo e prassi”. Di questo filosofo ci siamo già occupati con un accento di merito per le sue precedenti opere, dove in modo sistematico e con rigore dialettico, ci ha fornito una chiave, un codice, filosofico di delegittimazione del capitalismo. Nel suo ultimo lavoro del professore dell’Università San Raffaele di Milano, troviamo una volontà che continua in talsenso, ma rafforzata da un coraggio nuovo, di cui nel seguito cercheremo di indicarne i tratti. Altri autori, anche marxisti, avevano definito Giovanni Gentile come l’ultimo filosofo italiano, basti ricordare le affermazioni di Antonio Negri, Fusaro ritiene si Gentile il più grande filosofo del XX secolo, ma al riguardo va ben al di là di ogni aspettativa. Nel suo caso non si tratta di un puro interesse professionale per il quale è necessario colmare soltanto una lacuna. La sua ricerca appare folgorante perché sembra dare una nuova matrice di lettura al presente da usare poi, in senso fattivo, per il futuro. Il primo nodo sciolto, luogo comune stratificato e dato per scontato, è quello di ritenere la visione gentiliana antitetica a quella marxiana. Un’attenta analisi che passa attraverso tutto l’idealismo di Hegel e Fichte, porta a una conclusione totalmente opposta, Fusaro ritiene che da sempre il filosofo italiano si sia confrontato con Marx dall’inizio alla fine del suopercorso e mai in chiave antitetica, spesso critica, ma riconoscendogli meriti indiscutibili rintracciabili poi nella sua stessa visione attualista. D’altronde non è difficile capire come un’interpretazione di rottura dei due si sia invece incoraggiata, in modo ancora più spavaldo dopo la seconda guerra mondiale mancando le controparti, al fine di sostenere un atteggiamento di pensiero rigido, monolitico, mai veramente dialettico, tutto a vantaggio di uno scontro e di opposizione che non poteva avere alcun punto di contatto. Questo permise certamente la polverizzazione di un possibile spazio comune, bruciando ogni futuribile incontro tra l’uomo con il “fazzoletto rosso” e quello con la “camicia nera” anche da un punto di vista puramente filosofico. Strano poi che tanto più, dalla seconda metà del secolo precedente, ci si sentiva “puri e duri” tanto più ci allontanava a gran velocità da quelle indicazioni lasciate proprio da Gentile come ultime volontà del suo testamento spirituale, avantaggio invece di uno spirito antisocialista di stampo evoliano. Altro punto sostenuto da Fusaro è quello per cui tutta la filosofia che verrà dopo Gentile non potrà prescindere dall’idealismo attualistico. Anche quando la filosofia di Gentile è colpevolmente sottaciuta, nascosta o emarginata, essa rimane un punto d’arrivo o di partenza per tutti quelli che verranno, nessuno ne potrà fare a meno malgrado tutto. In altre parole il Gentile volutamente ignorato dalla “cultura italiana” non è stato da questa mai confutato. L’interpretazione che Gentile ha dato di Marx, a partire da “La filosofia di Marx” (del 1898, con riedizione 1937) , segna un punto irrinunciabile, che si posa sedimentandosi sul pensiero di tutto il secolo, compreso quello dei filosofi dichiaratamente comunisti. Per Diego Fusaro Gentile rappresenta per il XX secolo, quello che Hegel ha rappresento per il secolo precedente. Come caso emblematico viene riportato il pensiero di Antonio Gramsci, vedi “I quaderni dalcarcere”, dove nel tentativo di spiegare Marx e la sua prassi rivoluzionaria, il filosofo sardo non esce mai dall’interpretazione già gentiliana. Tutto il marxismo di Gramsci non supererà mai l’ambito attualistico. In “La filosofia di Marx” Gentile valuta il materialismo storico, analizzando i due termini in contraddizione: se il materialismo è storico, non può essere materialismo, ma idealismo, idealismo della prassi. Marx per Gentile è un “idealista nato” perché il suo pensiero malgrado tutto, non riuscirà mai ad affrancarsi dall’idealismo, il riferimento è a “Ideologia tedesca”. La contraddizione del filosofo di Treviri si risolve nell’attualismo. Gentile si pone nei confronti di Marx mai come antidoto, ma cogliendone la contraddizione, vuole essere il suo inveramento. Fusaro fa notare come Natoli in “Gentile filosofo europeo”, scrive: “Gentile è più interno al marxismo di quanto non lo sia il socialismo positivista”. L’opera ultima del grande filosofo italiana è “Genesi estruttura della società”, essa rappresenta la maturazione del pensiero attualistico che trova il naturale sbocco nel “l’umanesimo del lavoro”. L’attualismo è la filosofia del fare , dell’atto, il pensiero come azione da cui non si può trascendere. Tutto quello che è, lo è in virtù dell’atto del pensiero che lo pone. L’oggetto non ha un’esistenza anteriore al nostro conoscere, esiste solo quando il pensiero lo pone. Questo significa che l’uomo è l’artefice di tutto, l’uomo è artefice di se stesso. E’ su questa interpretazione che il lavoro, come prassi, atto trasformatore assume un aspetto centrale nell’attualismo. Il lavoratore diventa il punto focale nel pensiero e nella nuova società dell’umanesimo del lavoro. Il lavoratore creatore ha rispetto al proletario di Marx un respiro più ampio e meno astratto, autenticamente universale. E’ il nuovo umanesimo, l’umanesimo del lavoro, dove il lavoratore è il custode della prassi. Da “Genesi e struttura dell’umanità”: “All’umanesimodella cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi e succederà domani l’umanesimo del lavoro. Perché la creazione della grande industria e l’avanzata del lavoratore nella scena della grande storia han modificato profondamente il concetto moderno di cultura. Che era cultura dell’intelligenza soprattutto artistica e letteraria, e trascurava quella vasta zona dell’umanità che non s’affaccia al più libero orizzonte dell’alta cultura ma lavora alle fondamenta della cultura umana, là dove l’uomo è a contatto della natura e lavora. Lavora, da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora. Lavora cioè dispiegando quella stessa attività del pensiero, onde l’uomo via via pensando pone e risolve i problemi in cui si viene annodando e snodando la sua esistenza in atto. Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo. Via via la materia con cui,lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza; e lo spirito per tal modo si affranca e si libera nell’aer suo, fuori dallo spazio fuori dal tempo: ma la materia è già vinta da quando la zappa dissoda la terra, infrange la gleba a l’associa al conseguimento del fine dell’uomo. Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensandolo: il suo mondo, se stesso. Ogni lavoratore è fabbro fortunae suae, anzi faber sui ipsius. Bisognava perciò che quella cultura dell’uomo, che è propria dell’umanesimo letterario e filosofico, si slargasse per abbracciare ogni forma di attività onde l’uomo lavorando crea la sua umanità. Bisognava che si riconoscesse anche al lavoratore l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. Bisognava che pensatori e scienziati e artisti si abbracciassero coi lavoratori in questa coscienza della umana universale dignità”. Ed allora da questa concezione, non puòche cambiare anche l’idea di Nazione e di Stato. Perché “la Nazione non c’è se non in quanto si fa, ed è quella che facciamo noi con il nostro lavoro, e non credendo mai che essa ci sia già, anzi pensando che essa non c’è mai, ed è sempre da creare”. Così come “lo Stato non può essere lo Stato del cittadino ( o dell’uomo e del cittadino) come quello della Rivoluzione francese, ma deve essere, ed è, quello del lavoratore”. “L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, assecondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro”. Per Fusaro non si tratta semplicemente di riabilitare Giovanni Gentile perché colpito dall’anatema di quello che definisce “il pensiero magico”, ovvero quel tipo di pensiero che vorrebbe cancellare Gentile solo perché fascista e quindi affossare tutta la sua dialettica con un colpo di spugna. Il caso dell’attualismo non è un ritrovamento tra gli scranni polverosi universitari, la sua comprensione non si ferma a un dovere accademico,ma è un modello dialettico per dar battaglia all’asfissiante società capitalistica, un modello dialettico che nella sua specificità è atto, è fare. Per il giovane professore universitario: “L’attualismo gentiliano e la filosofia della praxis gramsciana costituiscono un giacimento che resiste alle sirene e utile per perseguire il sogno desto di una trasformazione del mondo. Contro ogni fatalismo e meccanicismo, alleati dell’immodificabilità”. Ed ancora: “Si tratta, secondo il presupposto idealistico, di tornare a prendere le mosse dalla defatalizzazione dell’esistente, sottraendolo all’assolutismo della necessità e dall’incantesimo dell’adattamento”. “La verità di Marx è Gentile”. Ovviamente questo non è un percorso filosofico di tipo contemplativo, interpretativo, ma con chiara continuità idealistica, marxianamente è prassi, gentilianamente è atto. Ecco allora che la posizione di opposizione al capitalismo è radicale, perché non si tratta di riformarlo, e trova la sua sostanzadialettica nell’idealismo di Fichte, di Hegel, di Marx e soprattutto di Gentile. Questa è una presenza antiadattiva, di rottura, antitetica all’accettare la realtà, il mondo, l’oggetto così com’è, in una forma dogmatica, quella della datità, nella sua morta oggettività, così da essere semplicemente, supinamente riflesso come preesistente. L’idealismo non fa patti con la società cosificata, oggettivata, perché essa è l’edificazione della società autenticamente materialistica. La filosofia del fare pone l’uomo, con il suo lavoro, come il libero artefice di se stesso e della sua storia, del suo “Io” e del suo “non-Io”, in un’incessante prassistica trasformazione. La collocazione dell’uomo nel mondo degli uomini, nella società, comporta un’inevitabile distinguo, dal quale far poi derivare in modo divergente differenti interpretazioni politiche e economiche. Da un lato si vuole l’uomo-individuo, che gode di una sua validità, una completezza a prescindere da tutto il resto, perchémembro naturale del regno animale (visione naturalistica) o perché così creato da Dio (visione religiosa), una destoricizzazione naturalistica o divina, comunque del tutto incapace di rispettare fino in fondo la “madre terra”, vedi disastri ambientali perpetrati. Quest’uomo è in grado di guardare il mondo esclusivamente dal suo punto di vista, dall’infinitesimale frazione, dalla sua parzialità, perché la sua è una pienezza preesistente, ma solo presupposta, è questa la visione robinsoniana, atomistica e autonomistica, individui moralmente già formati. Quest’uomo, questa singolarità, pur bastando a se stesso, si unisce in un patto d’interesse o di esplicito egoismo ai suoi simili (valga come richiamo Adam Smith quando ritiene che nella nostra quotidianità, quando ci rivolgiamo al macellaio, al fornaio, non ci rivolgiamo alla loro benevolenza e umanità, ma: ”… al loro egoismo”). Questa società che è solo frutto della sommatoria di “uno”, dove ognuno suona per se uno strumento ma il cuisuono unito agli altri non produce alcuna musica perché non in armonia con il tutto. L’uomo individuo astratto è tale da rispecchiare esclusivamente la realtà così come la trova, adattandola esclusivamente al proprio interesse. Un uomo così configurato è ovviamente vulnerabile perché solo, ma soprattutto è condizionabile perché è un uomo da riempire di cose e d’oggetti. Il rispecchiamento dell’oggetto sul soggetto è particolarmente spinto dalla produzione tecnologica che favorisce il processo d’inversione master/slave, attraverso il quale cessa il procedimento d’uso subentrando invece quello di schiavitù tramite il consumo alienante, controllo completo dell’oggetto sul soggetto. Tale prospettiva è evidentemente funzionale alla strutturazione di una società cosificata, materialistica, qual è quella dal mono orizzonte capitalistico. Ad un modello di società come questo si contrappone una visione che si può considerare idealistica o più genericamente comunitaristica. Sinteticamente:“L’uomo diventa uomo solo tra gli uomini” (Fiche), cioè è tale solo nell’ambito delle relazioni reciproche con gli altri, come per Gentile: “L’uomo è veramente animale politico, il suo pensiero non è suo, ma suo in quanto sociale, universale”. Non c’è fatalismo che crea, perché la storia e la società sono sempre un prodotto del suo fare, del suo lavoro. Fondamento della realtà è l’azione, marxianamente prassi, gentilianamente atto. L’uomo non comunitario affoga nella tristezza della sua solitudine, è un uomo mortale perché il suo collocamento, nella prospettiva dell’oggetto, è esclusivamente materialistico, la sua vita finisce con la cessazione del suo riflesso o consumo, non prevede futuro ne aldilà. L’uomo comunitario è immortale, eternizza se stesso perché partecipa al divenire del suo genere ontologico che s’invera nella comunità, con il lavoro l’uomo smaterializza e vince la materia. Abbracciamo allora in conclusione la tesi di Fusaro quando afferma che il telos daseguire è su di un piano comunitario, rigettando il dogmatismo capitalistico a favore di un fare che è incessante divenire che, nel costruire e rigenerarsi, attraverso il lavoro, crea l’uomo sociale e la sua storia.Lorenzo Chialastri
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