L’onda xenofoba va
 







di Irene Panozzo




La follia xenofoba che dall’11 maggio semina violenza in Sudafrica non si è ancora fermata. Anche se una calma tesa sembra essere tornata a Johannesburg, da dove tutto è cominciato, l’ondata di odio ha raggiunto anche le altre principali città del paese. Mercoledì era stata la volta della città portuale di Durban. Ieri di Città del Capo, seconda città del paese e fiore all’occhiello del turismo sudafricano.
Gli attacchi di Cape Town sono iniziati nella notte tra giovedì e venerdì, durante un meeting organizzato nella township di Dunoon, a circa 25 km a nord del centro città, proprio per prevenire i raid xenofobi. Le autorità cittadine, assieme alla polizia e alla società civile, avevano deciso nei giorni scorsi di mettere a punto dei piani di prevenzione delle violenze, ma gli sforzi non sono bastati. L’incontro di Dunoon è stato interrotto e, mentre gli stranieri presenti cercavano di mettersi in salvo, alcuni negozi di proprietà di immigratisomali sono stati saccheggiati. Alle forze dell’ordine c’è voluta tutta la notte - la «notte della vergogna» come l’ha chiamata il quotidiano locale Cape Argus - per riportare la calma a Dunoon. E alla fine il bilancio parla di un cittadino somalo morto e altri sei feriti.
La triste conta delle vittime continua. Come è continuato ieri l’esodo degli immigrati, che a migliaia cercano di tornare nei propri paesi. Quando è possibile però. In molti casi gli stranieri hanno lasciato le loro case senza aver tempo di prendere niente, quindi non possono ora pagarsi il viaggio di ritorno. In altri casi, invece, anche tornare a casa non è una soluzione praticabile. Questo vale soprattutto per i circa 3 milioni di zimbabwani che hanno trovato rifugio in Sudafrica dalla profonda crisi economica e politica del loro paese. Per loro ieri l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha chiesto al governo sudafricano status e tutele particolari. A partire sono quindi soprattutto i mozambicani,favoriti anche dalla decisione del governo di Maputo di organizzare dei pullman per assistere i propri cittadini nel rimpatrio, chiedendo loro allo stesso tempo di non reagire alle violenze.
Intanto, dopo dodici giorni di scontri, è tempo di analisi e valutazioni. Il governo di Thabo Mbeki è sempre più sotto accusa per il ritardo con cui l’emergenza è stata affrontata e per non aver saputo dare risposte adeguate ai crescenti problemi socio-economici legati al persistere di grandi sacche di povertà nel paese. In questi giorni di crisi, Mbeki ha rilasciato solo dichiarazioni ufficiali attraverso comunicati stampa. E c’è più di qualcuno che ha criticato la scelta di non recarsi di persona nelle township di Johannesburg dove tutto ha avuto inizio.
Dal canto loro, alcuni responsabili delle amministrazioni locali e alti funzionari di governo, a iniziare dal capo dei servizi di intelligence, hanno neanche tanto velatamente accusato «una terza mano» di aver strumentalizzato e manovratole violenze. Il riferimento è all’Inkatha Freedom Party, formazione nazionalista zulu, i cui sostenitori erano stati protagonisti, negli ultimi anni dell’apartheid, di feroci scontri con quelli dell’African national congress (Anc), che dal 1994 governa il paese. L’Anc sta attraversando una crisi legata alla leadership del partito e a inizio 2009 si voterà per presidenziali e legislative.
Al di là delle valutazioni politiche, preoccupa anche l’impatto delle violenze sull’economia, già in difficoltà per una grave crisi energetica e per l’alta inflazione. Serie conseguenze potrebbero ricadere sul settore turistico e soprattutto su quello minerario, colonna portante dell’economia sudafricana. Un terzo della forza lavoro non specializzata è costituita da minatori stranieri. Che ora, in molti casi, stanno cercando di andarsene.
Ma è soprattutto l’immagine del Sudafrica ad aver subito un forte colpo. Vedere neri sudafricani che uccidono altri neri, specie cittadini di paesi che, comeZimbabwe e Mozambico, hanno sostenuto attivamente la lotta contro l’apartheid, è stato uno shock in tutta l’Africa. E una battuta d’arresto non indifferente per uno Stato che da anni preme per essere considerato il candidato ideale a rappresentare il continente sulla scena internazionale.de Il Manifesto









   
 



 
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