Sudafrica Fine mondo
 







di Marco Boccitto




I pensionati bianchi di Fish Hoek portano a spasso i loro cagnolini agghindati, le vecchie decappotabili costeggiano a Muizenberg le stazioni balneari care a Agatha Christie e i pinguini di Boulders svolgono serenamente il loro lavoro di operatori turistici. Solo nei dintorni di Kommetje, tra le spiagge selvagge di Soetwater, qualcosa non va come dovrebbe. Il passaggio dall’estate all’inverno australe, in questa riserva naturale a metà strada tra Città del Capo e il Capo di Buona Speranza, è stato più brusco del solito.
Cape Point dista ancora una trentina di km, ma il vero finisterre è in questa lingua di dune e scogli stretta tra le montagne e il mare. Dove i bagnanti in cerca di natura dura e pura prendevano la tintarella, sorge ora il più grande dei siti arrangiati intorno a Cape Town per i profughi dei recenti pogrom razzisti. La sbarra e il posto di guardia all’inizio della strada, per quanto in Sudafrica sembrino normale amministrazione condominiale, dannotutto sommato l’idea di un luogo difendibile. Per entrare bisogna essere (o fingersi) volontari, oppure profughi. Però chi è appena sfuggito al linciaggio indica preoccupato la montagna alle spalle e la strada che la taglia a mezza costa. «Se decidessero di passare da lì non avremmo altra fuga che il mare», dice Saadak Hussen, uno dei giovani community leaders che i somali del campo si sono dati per avere una voce.
PiÙ ONU E MENO GOVERNO
Le istanze dei rifugiati - più Onu e meno governo, più cibo e magari un indennizzo per chi ha perso i suoi beni - derivano anche dal fatto che i 5 mila abitanti della tendopoli per arrivare qui non hanno dovuto attraversare il Kalahari a piedi, ma anzi avevano quasi tutti un lavoro, un’attività. Al momento di lasciare le proprie case ha avuto il tempo di prendere telefonino, un portafogli con dentro qualche soldo e, potendo, dei documenti. Qualcuno è venuto persino con la propria macchina, ma tutti gli altri sono stati de-portatisui bus governativi, con metodi sbrigativi che hanno suscitato la protesta delle ong, delle associazioni cattoliche di tutte le confessioni e di Medici senza frontiere. Così Jonas, un ragazzo di Harare che se ne sta in disparte a guardare la marea. Ripensa sconsolato al televisore lasciato in soggiorno e al lavoro da muratore che ha perso nella fuga. Non ha soldi neanche per chiamare la madre, sfollata anche lei ma da qualche parte su a Mamelodi, la township di Pretoria, figurarsi per pagarsi il viaggio di ritorno. E poi Harare oggi significa zero lavoro, inflazione al 165 mila% e alta tensione in vista del ballottaggio tra Mugabe e Tsvangirai. «Chi esce dal paese illegalmente viene considerato un oppositore - dice -. Credimi, per noi è troppo pericoloso rientrare. Ma anche tornare nelle township è fuori discussione».
Francis, di poco più grande, ha rispedito moglie e tre figli a Masvingo, la città nel sud-est dello Zimbabwe da cui è partito un anno prima. Lui resta, perché infondo spera ancora di uscire da qui e riprendersi il posto in una fabbrica di mattoni. «Mi sento responsabile per i bambini, cosa posso fare? Posso solo aspettare». Nell’attesa si lancia nella polverosa partitella a pallone in corso nello spiazzo accanto alle docce, un campetto improvvisato che divide in due settori distinti la tendopoli. Di qua i somali, circa 2.200, di là il resto del continente o quasi. Una situazione riflessa negli schieramenti in campo, dove infuria una sorta di Coppa d’Africa informale che sa di benefica valvola di sfogo per tutte le tensioni. Anche perché dopo un’entrata un po’ carogna sulle gambe le discussioni degenerano al massimo in qualche spintone: «Vuoi litigare? Dillo che vuoi litigare». Ci mancherebbe solo questo.
Sugli «spalti» tutti vogliono parlare, raccontare la loro storia. I ragazzi somali - quasi tutti da Mogadiscio - mostrano la rubrica del cellulare con almeno un numero italiano, un amico o un familiare da sentire ogni tanto all’altro capodella diaspora. «Abdirahman Mohamedali, 22 anni, in Sudafrica da cinque... Jabrail Mohamad, 21, lavoravo nel negozio di mio cugino a Khayelitsha.... Mohamed Muuse. 21 anni, da tre a bottega nella township di Du Noon». Per Cicasiis Ahmed, 18 anni, «questo paese è merda; mica tutto, bianchi e indiani sono ok, ma il problema sono i neri, zulu e xhosa; se ne incontro uno quando sarò tornato in Somalia ti giuro che gli sparo». Risentimento cieco, come il vicolo in cui questi ragazzi sono finiti: «Veniamo da un paese in guerra - aggiunge Abdirahman - ormai senza controllo, ma se proprio dobbiamo morire preferiamo farlo lì. Con questo posto schifoso abbiamo chiuso. Qui al campo è dura, se non interviene l’Alto commissariato per i rifugiati siamo pronti a lasciarci morire in mare». La catena della solidarietà lega, ma si spezza appena fuori dal campo. Chi ha le proprie attività in centro e magari la fortuna di vivere nel city bowl, la conchiglia in cui la Table Mountain racchiude il nucleostorico di Cape Town, per ora tace. Secondo il piccolo portavoce Saadak, cartellino sul petto con nome e numero di telefono, «molti hanno passaporti pesanti, canadesi, americani, inglesi, italiani, si sentono garantiti e se serve hanno un altro posto dove andare. Se ne fregano».
Ma nel contempo Soetwater unisce, purtroppo nella disgrazia, popoli altrimenti nemici. Un gruppo di etiopi apre volentieri l’interno della sua tenda, dove i giovani si incremano dopo la doccia e i grandi parlottano in piedi tra i giacigli di fortuna. Alle pareti sono appese bandierine, croce copta e scritte in amarico. Su un cartellone c’è un collage di ritagli, titoli di articoli e le immagini più crude uscite sui giornali. con al centro il simbolo delle Nazioni unite in campo azzurro e la scritta «We want U.N.», vogliamo l’Onu. Il racconto del negozio che gestivano, del crescendo di intimidazioni e aggressioni, fino al saccheggio finale, tocca a Thedros Getacheya, un rastafariano magrissimo che rimarca abassa voce, con estrema calma, come loro vendessero ai sudafricani merci comprate da altri sudafricani, non rubavano niente a nessuno e anzi contribuivano alla famosa crescita del paese. Tornare nel posto in cui ha vissuto e lavorato negli ultimi 12 anni? Neanche per sogno.
AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA
Non serve a molto raccontare loro che se vai oggi nella township di Khayelitsha («la nostra nuova casa», in lingua xhosa), la più grande di Cape Town e la terza del paese, la sfilza di negozietti chiusi salta agli occhi, come la fila nervosa davanti ai pochi rimasti aperti. Qui c’è stata una marcia di protesta, sui manifesti c’è scritto che «i lavoratori sudafricani rifiutano la xenofobia» e la hall comunale Andhile Mzili («la famiglia s’ingrandisce», insomma aggiungi un posto a tavola), dà rifugio ad alcune famiglie di sfollati. La gente ora dice che li rivuole indietro, i suoi fratelli stranieri, ma qui a Soetwater non ci crede nessuno. E nessuno sembra commuoversiper i fund raising party organizzati dai rapper di Johannesburg o nei disco-bar di Città del Capo, in una Long street tappezzata delle locandine con in cui il premier provinciale Ebrahim Rasool implora lo stop alle violenze in virtù del fatto che «siamo tutti africani». Loro preferiscono vivere, e anche per questo vogliono che sia l’Onu a prendere il controllo del campo. Si toccano nervosamente il braccialetto numerato di plastica gialla che portano al polso. Tornare? Non se ne parla proprio.
MEDITAZIONE ORIENTALE
Fa freddo oggi a Soetwater, dove al posto dei surfisti adesso si danno da fare i volontari delle ong, tecnici e operai inviati da provincia e comune. C’è un’unità della protezione civile e c’è una squadra di spazzini che tiene in ordine i viali di sabbia e ghiaia tra le tende. Su una di quelle a righine bianche e gialle dell’Onu campeggia il logo The Art of Living e la scritta «Tutti Benvenuti». All’interno ci si può far medicare una ferita opartecipare a una seduta di meditazione orientale. «Sono un po’ new age, è vero - dice Julan Briant, una spiritata signora inglese che poche tende più in là ha impiantato una scuola d’indirizzo steineriano per i più piccoli -. Però lo fanno col cuore e questo per gente così scossa è molto importante». Ovunque ferve l’attività. Telefonini in ricarica alle colonnine in cui erano soliti abbeverarsi i camper turistici, le bocchette dell’acqua disseminate nell’area che incoraggiano colossali bucati. Sigarette sfuse, spazio barbiere, un fuoco con una pentola che bolle, la prima micro-economia del campo fa tanto vita che riprende. Vengono montate altre tende - segno che sono in arrivo nuovi ospiti -, si scaricano dai camion i bagni chimici prestati da qualche festival, gli elettricisti allacciano nuovi punti luce. Ogni tanto passa un pick-up della polizia municipale, più tollerata di quella nazionale che qui è considerata complice degli assalitori. Nessun gesto ostile aperto, ma la tensione èpalpabile con i vigilantes ingaggiati dalle autorità locali, che presidiano gli angoli del campo e l’entrata dalle tende in cui si distribuiscono abiti e cibo. Aldilà della stessa cortina invisibile sembrano muoversi gli operai del comune, anche loro di etnia zulu e xhosa.
A Cape Town i tumulti, iniziati paradossalmente durante una manifestazione che voleva prevenirli, hanno causato molte meno vittime rispetto a Johannesburg e «solo» 20 mila sfollati, ma l’alone di odio e terrore rimasto a mezz’aria è lo stesso. Uguali sono gli occhi arrossati, il tono sommesso, le storie di chi ha avuto salva la vita ma ha perso il resto. «Cosa possiamo fare, speriamo che qualcuno ci aiuti. Magari l’Onu».de Il Manifesto 









   
 



 
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