Amazzonia E PISTOLEIROS
 







di Andrea Palladino




La strada BR 174 taglia in due il nord dell’Amazzonia brasiliana. A guardarla sulla mappa sembra un serpente che scivola nella foresta, portando con se le mille storie e contraddizioni di quella terra che i colonizzatori portoghesi, spagnoli e inglesi chiamavano El Dorado. Parte da Manaus, nel centro della foresta amazzonica, e arriva in Venezuela, dopo aver attraversato due grandi aree indigene, una delle più grandi miniere dell’America Latina - la Paranapanema, ricca di coltan, minerale base dell’elettronica - diverse fazendas che stanno scommentendo sul biodiesel e la foresta pluviale più importante del mondo.
La BR 174 è il simbolo dei conflitti, del colonialismo irrisolto del Brasile, dei modelli di sviluppo folli, gli stessi che hanno creato un distretto indutriale nel cuore della foresta, a Manaus, e che oggi propongono di investire sempre più nella monoculotura della soia e della canna da zucchero.
La BR 174 da Boa Vista sale versonord per circa 240 chilometri, prima di entrare in Venezuela. L’ultima città brasiliana si chiama Pacaraima ed il quartier generale di Paulo César Quartiero, il nemico giurato delle popolazioni indigene. E’ stato lui il mandante principale degli attacchi che i pistoleiros hanno compiuto contro indigeni e amici degli indigeni negli ultimi quattro anni in questa zona all’estremo nord dell’Amazzonia brasiliana. Prima nel 2004 furono rapiti tre missionari della Consolata, che da sempre appoggiano le organizzazioni indigene. Poi, nella notte del 17 settembre del 2005, un gruppo di uomini armati distrusse la scuola indigena di Surumu, un villaggio dove si formano i leader che guideranno le centinaia di comunità sparse nello stato di Roraima. Per quattro ore gli uomini al servizio di Quartiero cosparsero benzina, incendiarono, distrussero, minacciarono. Era l’anno del definitivo riconoscimento dell’area indigena Raposa Serra do Sol, che in questi giorni sta dividendo di nuovo il Brasile. Unarea che accoglie 19.000 indigeni, divisi in 194 comunità, con un tasso di crescita tra i più alti della regione nord.
Quartiero ha ancora le sue piantagioni di riso nell’area di Surumu e non ha nessuna intenzione di lasciarle pacificamente, come invece prevede la costituzione brasiliana. La Polizia Federale e la Força de Segurança Nacional avevano iniziato a marzo l’espulsione di Quartiero e di altri pochi fazendeiros che non avevano accettato l’indennizzo proposto dal governo federale, operazione che aveva richiesto la mobilitazione di centinaia di uomini a Boa Vista, capitale dello stato di Roraima. Dal 2005 il Supremo Tribunale è stato sommerso da ricorsi che vengono dal Roraima, presentati da fazendeiros, senatori (anche del Pt di Lula) e deputati, tutti uniti dalla guerra al riconoscimento del diritto degli indigeni a una terra propria.
Ad aprile la Corte suprema per la prima volta ha accolto uno dei ricorsi, sospendendo l’azione della polizia federale e oggi stavalutando la costituzionalità del decreto di riconoscimento dell’area. Una decisione abnorme, che può rimettere in discussione trent’anni di lotte per i diritti indigeni in Brasile.
Quartiero - che è sindaco di Pacaraima e leader indiscusso dei fazendeiros di Roraima - ha rilanciato il suo gioco al massacro. Il cinque maggio scorso un gruppo di fuoco ha sparato contro gli indigeni che stavano costruendo delle case nella sua fazenda, posta all’interno dell’area di Raposa Serra do Sol. Dieci feriti, e solo per miracolo non è morto nessuno. Gli uomini facevano parte di una vera e propria milizia privata, armata di bombe artigianali e fucili. Ancora oggi girano in moto, fanno gimcane davanti alle case degli indigeni, sfidando la polizia federale bloccata dalla decisione della corte suprema di Brasilia. Pistoleiros venuti da Manaus, dal Parà, dalle terre di conflitto dove ogni giorni si scontrano i latifondisti con i contadini senza terra, addestrati - secondo l’inchiesta della poliziafederale - anche da ex colonelli dell’esercito brasiliano.
Ora manca poco più di un mese alla decisione sulla legittimità costituzionale e i tuxauas - i capi delle comunità indigene - sono più determinati che mai. Hanno un’arma che sanno usare con sapienza, ed è la forza della loro tradizione e il legame ancestrale con la terra. Raposa Serra do Sol è il luogo dell’anima, prima di essere il mezzo di sopravvivenza.
La BR 174 lunedì 16 giugno è stata chiusa, bloccata dagli indigeni. L’accesso che lega il Brasile del Nord alla città di Pacaraima e al Venezuela per alcune ore è stato sotto il controllo dei tuxauas. Fermi i camion con doppio serbatorio che portano il combustibile di contrabbando dal Venezuela, ferme le jeep dei fazendeiros che da Pacaraima scendono nelle aree indigene che occupano ancora abusivamente. Tra i camionisti in fila si sentono proteste un po’ sommesse, è caldo e il sole equatoriale scalda non solo i motori. E’ una riappropiazione, almeno simbolica, delleterre dell’enclave dei fazendeiros nella terra indigena.
La mattina presto centinaia di giovanissimi studenti delle scuole «differenziate» gestite dalle organizzazioni indigene nei villaggi sono scesi davanti alla fazenda di Quartiero, a circa 30 chilometri dalla BR 174. C’è da giorni un accampamento, il nucleo di un nuovo villaggio che si chiamerà «10 fratelli», ricordando i dieci feriti del 5 maggio scorso, ultimo atto di una strage silenziosa. Pochi metri di strada dividono la nuova comunità dalla proprietà del leader dei fazendeiros. Pochi metri che vengono riempiti dalle danze, dai rituali, dai simboli che oggi vengono insegnati nelle scuole nei villaggi. Una pajé - sciamana - guida la preghiera iniziale, l’evocazione di Makunaima, che prima di essere l’eroe simbolo del Brasile nel romanzo di Mario de Andrade è la divinità che guarda questa terra dal Monte Roraima, nell’estremo Nord dell’area indigena Raposa Serra do Sol. «Giornalista, racconta la verità, perché questa terra èviva, è gente, queste foglie sono vive, il nostro popolo é vivo - dice a voce alta davanti a centinaia di ragazzi indigeni - e quel bianco, quel Quartiero, è il demonio. Noi lotteremo, fino all’ultimo indio».
Tutti si inchinano davanti alla terra, strofinano le mani sul suolo, abbracciano la loro madre terra. Anna pata, anna yan, nostra madre, nostra terra, ripetono. Una terra che è stata violata, sporcata con il sangue dei dieci fratelli e dei ventuno indigeni morti da quando è iniziato il conflitto nell’area. Una terra marcata dai pneumatici dei pistoleiros che passano, anche nel giorno della commemorazione, davanti all’accampamento.
La festa è ormai finita quando arrivano le jeep della polizia federale e della forza di sicurezza nazionale. Scendono armati, guardano verso la fazenda di Quartiero, sanno che il pericolo può venire da li. Il comandante si avvicina, parla con i tuxaua. Alla fine chiede di fare una foto insieme. L’atmosfera è tranquilla, gli indigeni guardano lapolizia federale con rispetto, sanno che i loro diritti sono incisi nella costituzione federale.
A pochi chilometri, tra l’area San Marcos e Raposa Serra do Sol, c’è il villaggio di Barro - che i bianchi hanno voluto rinominare Vila Surumu - dove le donne stanno cucinando per le centinaia di indigeni venuti dall’intera area. Qui Quartiero ha fatto costruire un ufficio distaccato del municipio di Pacaraima, dove i suoi uomini hanno messo uno striscione, «No alla polizia federale, si all’esercito brasiliano». Perché se il Roraima è diviso, l’intero Brasile si è trovato con due ideologie contrapposte. L’esercito ha appoggiato di fatto i fazendeiros. Per loro la questione indigena riguarda la sicurezza nazionale e ritengono che le aree indigene possano attentare alla sovranità del paese.
All’ingresso di Barro i fazendeiros hanno messo una bandiera del Brasile gigante. Hanno però tagliato i rami che facevano ombra alle macchine della polizia federale che stazionavano lì, pronte adespellere chi non ha diritto a quella terra. Hanno lanciato pietre contro i poliziotti che all’inizio di maggio arrestarono Quartiero come mandate dell’attacco agli indigeni. Paulo Cesar Quartiero in galera c’è rimasto pochi giorni e il suo ritorno a Pacaraima è stata forse una delle peggiori sconfitte per la giustizia nel nord del Brasile.
La strategia di chi vorrebbe gli indigeni isolati in piccole aree separate tra loro è oggi chiara: l’indigeno deve essere brasilianizzato, «deve poter vedere le novelas e il Grande Fratello», dice alla stampa locale Quartiero. Quando il leader dei fazendeiros rifletteva nella prigione a Brasilia nel maggio scorso, a Barro i suoi sostenitori organizzarono una festa, davanti alla comunità indigena che occupa ormai gran parte della città. Portarono un impianto di amplificazione da stadio e un proiettore video, musica alta tutto il giorno e proiezione di film pornografici tutta la notte. Tanto per capire qual’è il Brasile che i bianchi hanno inmente, qual’è il paese che vorrebbe gli indigeni fuori dalle aree demarcate.
Ma la pazienza dei popoli Macuxi, Waupixana, Taurepang, Patamona e Ingarikò e di tutte le altre etnie che vivono da migliaia di anni nella terra di Raposa do Sol è grande, come la loro saggezza. La società che hanno costruito ripudia radicalmente lo sfruttamento della terra con la monocultura e la distruzione della natura, considera la democrazia il valore principe, obbliga chi vive nella comunità ad essere attivo e partecipare. Gli indigeni sanno che quel Brasile delle coltivazioni estensive, dell’agrobusiness, del lavoro schiavo e delle periferie invivibili non li riguarda. E sanno che proprio perché la loro esistenza è la prova che è possibile vivere bene in armonia con la natura, con un Brasile differente e più giusto in testa, la società figlia del colonialismo non gli darà pace. Resisteranno, dicono, fino all’ultimo indio.de Il Manifesto









   
 



 
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