La guerra al giornalismo da Londra a Roma
 











Dal Watergate al Datagate, per limitarsi agli ultimi quarant’anni, c’è un filo rosso che unisce da sempre il turbolento rapporto fra media e potere. Proprio “War on journalism”, la guerra al giornalismo ma anche del giornalismo nei confronti delle importanti evoluzioni degli ultimi anni, è il tema che ha anticipato l’ottava edizione del Festival internazionale del giornalismo, in programma da mercoledì 30 aprile a domenica 4 maggio a Perugia. Più di 500 relatori da tutto il mondo animeranno 200 fra incontri, dibattiti, presentazioni e tavole rotonde per scovare le nuove tendenze dell’informazione contemporanea.  Dalle opportunità del Web alle sfide prodotte dagli intricati scenari internazionali. Russia, Africa e Siria su tutti.
Un campo di battaglia scivoloso, quello scelto per il dibattito d’apertura, in cui finiscono da una parte l’affidabilità delle fonti e dall’altra il perimetro di azione e le garanzie offerte ai cittadini dalledemocrazie presenti e future. Ezio Mauro, direttore de la Repubblica, e Alan Rusbridger, alla guida del britannico Guardian dal 1995, hanno tenuto a battesimo la nuova edizione della kermesse moderati dal corrispondente da Londra de la Repubblica Enrico Franceschini. Direttori che rappresentano “due giornali simili, che rispecchiano un modo di intendere la realtà”, ha introdotto Franceschini, “che hanno molte cose in comune. La principale è che hanno entrambi lottato per la libertà di stampa”. Nel caso del Guardian dal Wikileaks al Datagate mentre la Repubblica ha raccontato vizi privati e pubblici difetti dei governi che si sono susseguiti negli anni. Su tutti, quelli guidati da Silvio Berlusconi. “Due giornali spesso rimasti soli nelle loro battaglie” ha aggiunto Franceschini.
Sfide che non modificano il ruolo del giornalismo anche se i contesti cambiano continuamente: “Siamo reporter, dobbiamo essere indipendenti da ogni forma di potere ma rimarrà sempre la necessità delgiornalismo tradizionale” ha detto il direttore del Guardian. “Fino agli anni ‘60 i giornali raccontavano ai lettori porzioni di mondo che questi non avrebbero mai conosciuto – ha aggiunto Mauro – la Rete ha cambiato tutto. Ma la funzione essenziale è ancora molto importante: su internet quello che conta è la velocità, ma è anche vero che la pernacchia di un blogger o un saggio di Habermas rischiano di viaggiare indistinti. I giornali devono invece stare con un piede dentro e uno fuori dal flusso, tentando di fornire una ricostruzione della realtà. Chiediamoci perché sia Julian Assange che Edward Snowden hanno cercato i giornali anziché accontentarsi di riversare tutto online: la stampa ha gerarchizzato quei materiali, svolgendo la funzione propria di questa professione”.
“Il premio Pulitzer ricevuto dal Guardian è andato oltre il giornalismo – ha spiegato Rusbridger sul riconoscimento da poco incassato dalla sua testata, insieme al Washington Post, nella categoria servizio pubblicoper le rivelazioni sul Datagate – ciò che è stato raccontato riguarda infatti chiunque: opinione pubblica, cittadini, aziende che lavorano sul Web. Il caso Snowden anticipa uno dei grandi temi del XXI secolo e portarlo alla luce è stato difficile ma gratificante. La maggior parte delle persone riconosce ora che gli elementi d’interesse pubblico erano molti ed era necessario sollevare il dibattito sulla base dei fatti. A questo serve il giornalismo”.
Fasi di fibrillazione, quelle del testa a testa con la politica, in cui i giornali rischiano l’isolamento. Proprio come la Repubblica all’epoca delle dieci domande all’ex premier Berlusconi: “Siamo andati avanti a testa bassa fino alle risposte, alla fine arrivate e segnate dai limiti enormi – ha ricordato Mauro – questo perché rispettiamo il potere ma anche le regole in cui deve muoversi: il nostro compito è lavorare esattamente su quel confine. Per farci dire quello che non si vuole dire”. Una lotta fra media e potere che puòsignificare molte cose, “anche la morte”, ha ricordato Rusbridger alludendo alle decine di Paesi in cui i reporter rischiano ogni giorno mentre infilano il dito nelle piaghe locali, spesso intrecciate a dinamiche internazionali. “Le tecnologie ci permettono però di raccontare queste storie anche dall’esterno, aspetto che tuttavia muta i punti di vista di quanto si riporta, ad esempio per quanto riguarda le fonti”.
Segreti di Stato e strategia della tensione hanno segnato per decenni la vita pubblica italiana. Ma la capacità di egemonia culturale del potere cambia e si sofistica di continuo, lanciandosi oltre le vecchie strategie: “Il problema è la banalizzazione dei temi – ha spiegato Mauro – come accaduto col Datagate, che si parlasse di 38 ambasciate spiate o del G20 di Londra nel 2009. Eppure moltissime di quelle cose non le sapevamo, dalle infiltrazioni nei cavi sottomarini delle comunicazioni mondiali agli accordi delle big company con l’amministrazione statunitense sui datidegli utenti. Ecco perché il giornalismo deve attribuire un nome alle notizie, assumendosi la responsabilità anche rispetto al peso da assegnare loro. Questo è il modo di sconfiggere la banalizzazione imposta dal potere”.
Uno scenario in cui anche la figura del giornalista cambia forma e competenze. È il caso, su tutti, di Glenn Greenwald, nato come blogger e avvocato del giornale londinese, certo non un professionista nel senso stretto del termine, eppure epicentro del Datagate: “Snowden si è rivolto a lui perché voleva esperienza e però puntava anche al pubblico del Guardian – ha aggiunto Rusbridger – in un intreccio fra tradizione e contemporaneità che ci ricorda di rimuovere le distinzioni, fuggendo dal giornalismo da scrivania”.
“Viviamo in un quadro in cui il potere è fortemente esposto, molto più che in passato – ha concluso Mauro – la testimonianza spontanea delle persone salta ogni mediazione, pur cercando la cassa di risonanza dei grandi giornali. Che oltre a mostrarele immagini cercano però precedenti, trovano i responsabili, tirano fuori i pezzi della storia, quelli più significativi, e li mettono in fila. Il giornalismo è soprattutto questo: invenzione del contesto. Non tutto scorre: dietro ogni incrocio c’è un territorio da svelare”. Simone Cosimi,repubblica

 









   
 



 
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