Festa di primavera, fiori, canti e danze, un circo invisibile che si preannunzia con i suoi acrobati, giocolieri, mimi, vestiti bianchi sui quali fioriscono prati di margherite colorate e un amore gentile e innocente fra una furba e capricciosa fittavola e un giovanottino timido e innamorato; una guarnigione con i suoi due rutilanti soldatini, condotti dal borioso sergente Belcore, erede di quel Miles gloriosus della commedia plautina, altero e comico nella sua divisa smagliante, impegnati nelle pavoneggianti uniformi piene di pennacchi e nei berretti militari altissimi, testimoni di un potere tutto da ridere. Il palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma festeggia l’esprit di maggio con !”L’Elisir d’Amore” di Gaetano Donizetti, è radioso, illuminato di tinte pastello – sapiente il gioco di luci di Agostino Angelini, e per il tutto, citiamo volentieri il finale del primo atto quando l’intero palcoscenico si colora di un verde tenero chetrasferisce la messinscena in una atmosfera impressionista –, generoso di giocondità verso un pubblico che sta svestendo il pesante e noioso inverno e vuole leggerezza e allegria. Quelle che regalano le arie dolcissime, patetiche e giocose ad un tempo di quest’opera preziosa. Quelle che offrono un mirabile cast di cantanti, da Rosa Feola, Adina, la quale non avrà pure un grande volume di voce ma è elegante nell’emissione, limpida nelle note romantiche e sentimentali, fresca e credibile nella recitazione del suo personaggio che è poi quello di una ricca fittavola, innamorata e dispettosa, che cerca di svegliare nel tenero corteggiatore, Nemorino, Antonio Poli, atteggiamenti più convintamente seduttivi. Lui, Poli, indossa alla perfezione il ruolo di un paesanotto ingenuo, impacciato e innamorato, ha begli acuti, voce chiara da tenore leggero, quello che una volta era il tenorino di grazia, ha ottima dizione e tutto sommato, recita bene se si considera che ilpersonaggio non è comico né drammatico, ma attinge a tutte le sfumature del patetismo musicale, una categoria a sé. Quelle che regalano a piene mani Ruggero Cappuccio con il suo allestimento, già visto qualche anno fa, dell’ “Elisir”. Suo merito principale è quello di aver creato un non-luogo, estremamente duttile, che sembra costruito con panna montata, bianco nel bianco con due paesini fiabeschi ai due lati del palcoscenico, con casette minuscole illuminate da finestrelle dorate; con tre grandi tavoloni che si possono facilmente muovere e diventare luoghi dove ambientare le bellissime arie dell’opera. Quella di Ruggero Cappuccio è una regia dai funambolismi “napoletani”, moderna, attenta alle esigenze del canto e della platea, come anche alla recitazione, un allestimento che scarta tutto l’elemento oleografico e le concrezioni che da troppo tempo sono cresciute su queste pagine musicali agilissime e si affida a pochissimi elementi scenici, in un palcoscenico incanutito. Le scenedi Nicola Rubertelli, infatti, sono luminosissime e monocromatiche, solo illuminate da piccoli sipari colorati che scendono dall’alto. In queste scene candide e fiorite, ecco i clown tutti coniugati al femminile: saltimbanchi e giocolieri, circensi sui trampoli e trapezisti, abili ginnaste appese su cordoni improvvisati con drappi di seta rossa, che smorzano la dolcezza sospirosa della scena di Nemorino impegnato in “Una furtiva lacrima”. L’ingresso in scena di Dulcamara ( bravissimo Adrian Sampetrean ), deus ex machina di tutto l’intreccio, da sempre uno dei momenti salienti che titillano le attese del pubblico, invece del consueto carro pieno di cianfrusaglie, è qui risolto in modo divertente con una sorta di piramide-astronave luccicante, che si apre in quattro petali e lascia intravedere qualche preziosa boccetta colorata e un omino piccolo piccolo, un mago miniaturizzato avvolto da un mantello con una tuba arancione e dei divertentissimi e folli occhialoni,che intona a contrasto, con voce profonda “Udite, udite, o rustici” con un richiamo perentorio. Poi, eliminato il buffo impermeabile che gli consente di camminare accoccolato e riassunta l’altezza normale, Dulcamara si tira su come una molla che svolge le proprie spire, leva il cappello e rivela una lunghissima treccia nera. Tutti sono raccordati dalla bacchetta di Donato Renzetti, direttore di consolidata esperienza. I costumi sono di Carlo Poggioli, molto graziosi, bianchi e con sovra sottane di plastica lucente, trasparente e fiorita ed esaltano il bel tono elegiaco di questa commedia di ambientazione bucolica, che ha l’antenato letterario ne “Le Philtre” di Eugène Scribe e il libretto del poeta Felice Romani e che ha visto la luce il 12 maggio del 1832 al Teatro della Canobbiana di Milano con immediato e imperituro successo.Franzina Ancona
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