RESISTERE al muro IL COPRIFUOCO NON FERMA LA LOTTA
 







di Michele Giorgio




I più giovani il coprifuoco non lo avevano ancora provato. Ma ora anche i bambini di Niilin conoscono questa misura punitiva che l’esercito israeliano negli ultimi anni ha usato a più riprese per contenere l’Intifada nei Territori occupati. Protestare contro la confisca delle terre, reagire contro un provvedimento che nega un futuro a tante famiglie, è un «crimine» che le forze armate non tollerano.
Così da cinque giorni Niilin è finita sotto coprifuoco. Ciononostante i suoi abitanti non sembrano avere ancora alcuna intenzione di arrendersi all’idea che il muro passerà sui terreni del villaggio. «Nessuno può uscire in strada, i soldati (israeliani) minacciano di aprire il fuoco, ma noi non resteremo a guardare mentre ci portano via quel poco che abbiamo per sfamare i nostri figli», avverte Raed, del comitato popolare di Niilin. L’altro giorno, erano quasi le 11 quando gli abitanti hanno deciso di violare il coprifuoco e di riprendere le proteste.Gli scontri con l’esercito sono andati avanti sino a sera. Alla fine della giornata 17 palestinesi sono rimasti feriti.
«Hanno lanciato granate assordanti nelle nostre case, hanno sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni, ma non ci hanno piegato, riceviamo ogni giorno tanta solidarietà e quindi andiamo avanti», dice abbozzando un sorriso Salah Khawaje, uno degli artefici della battaglia di Niilin, sempre più simile a quella del vicino Bilin, simbolo da tre anni della resistenza pacifica palestinese contro il muro. «Impongono il coprifuoco per evitare il sabotaggio delle loro ruspe, sanno che lasciandole qui la sera le ritroveranno danneggiate il giorno dopo, ma vogliono anche bloccare una protesta che ora fa notizia», aggiunge Khawaje, soddisfatto per l’aiuto ricevuto dalla sua gente dai villaggi vicini di Budrus e Midia e dalla costante presenza di pacifisti israeliani e internazionali che chiedono la fine dell’assedio.
Niilin, situato ad una trentina di km da Ramallah evicinissimo alla Linea verde, il «confine» tra Israele e Territori occupati, era un villaggio tranquillo fino a qualche tempo fa. La sua scuola superiore è ancora considerata la migliore di tutta la zona e gli studenti più bravi dei villaggi vicini la scelgono per prepararsi meglio all’università. Prima del 1948 i suoi abitanti possedevano 580 ettari di terra, ma 400 finirono annessi al neonato Stato di Israele.
Dopo l’ occupazione della Cisgiordania nel 1967, il villaggio perse altri 80 ettari di terre su cui furono costruite le colonie ebraiche di Kiryat Sefer, Mettityahu and Makabim. Ora siamo all’atto finale. Dei 100 ettari rimanenti, almeno 25 serviranno per completare il muro in quella zona e per costruire una nuova base militare. L’esercito ha già chiuso l’ingresso del villaggio e in futuro gli abitanti per lasciare Niilin dovranno servirsi di un tunnel, che passa sotto una strada ad uso esclusivo dei coloni israeliani, che può essere chiuso in qualsiasi momento.
«Israele ci rende impossibile la vita, vuole chiuderci in una prigione e toglierci le ultime terre che ci restano. Per questo non ci resta che la lotta», afferma con tono perentorio Khawaje ricordando che il 9 luglio è il quarto anniversario del pronunciamento dell’Alta Corte di Giustizia dell’Aja contro il muro. «Nessuno ricorda più quella data e quella sentenza, ma noi non la dimenticheremo mai, le parole per noi sono pietre», sottolinea l’attivista palestinese.
Non la dimentica neppure Sharif Khaled, 65 anni, conosciuto da tutti come Abu Hassan, uno dei 3.500 abitanti di Jayyus (Qalqilya), il villaggio dal quale, nel 2002, partì la campagna contro il muro. Lavora la terra da quando era un bambino, ma ciò non gli ha impedito di terminare regolarmente la scuola e di studiare le lingue: la sua padronanza dell’inglese è impressionante. «Israele sostiene che il muro ha solo motivazioni di sicurezza, che serve a bloccare i "terroristi", invece ha finalità soprattutto politiche,non lo ha costruito sulla sua terra ma in Cisgiordania, sulla nostra terra...osservate con attenzione», diceva lunedì Abu Hassan mostrando, su di una cartina, il percorso tortuoso del muro ben all’interno della Cisgiordania, ad una dozzina di giornalisti stranieri portati a Jayyus da funzionari di Ocha (Nazioni Unite).
Difficile dargli torto. Quando i 723 km della barriera - costruita solo per un 13% sulla Linea verde - saranno completati, il 9.8% della Cisgiordania (inclusa l’area di Gerusalemme est) sarà di fatto annesso a Israele. Non solo, ma almeno 35mila palestinesi si ritroveranno prigionieri sul versante occidentale del muro, poiché da un lato non potranno entrare in Israele e dall’altro per passare sul versante orientale dovranno ottenere un permesso dall’esercito.
Due sobborghi di Gerusalemme Est - il campo profughi di Shuffat e il villaggio di Kufr Aqab - dove gli abitanti posseggono documenti israeliani, verranno tagliati fuori dal muro e diventeranno, con decisioneunilaterale, parte della Cisgiordania. Almeno 125mila palestinesi (28 comunità) saranno circondati dalla barriera su tre lati nelle zona di Biddya, Biddu e Qalqilya e altri 26mila (otto comunità) completamente nelle aree di Zawiya e Bir Nabala.
«Quando hanno terminato il muro in questa zona nell’agosto 2003 - ricorda Abu Hassan - ci siamo ritrovati con 860 ettari di terra in meno e senza 50mila alberi, 70 serre e 6 pozzi. Anche l’acqua ci hanno rubato, ora dobbiamo comprarla al villaggio di Azun. Vivevamo bene, i nostri figli avevano un futuro, ora invece pensano solo ad andare via».
Abu Hassan possiede 16 ettari di terra sul versante occidentale della barriera ma riesce a coltivarli solo grazie all’aiuto di altri contadini (i figli non sono autorizzati ad entrare in quella zona) e solo dopo essersi procurato permessi di breve durata. Attualmente, riferiscono le Nazioni Unite, solo il 20% degli abitanti di Jayyus ottengono il permesso dell’esercito rispetto al 2003. Inoltre cisono da rispettare gli orari: i soldati consentono il passaggio da una parte all’altra della barriera solo tre volte al giorno. «La strategia è evidente - spiega il contadino -: vogliono che la terra venga abbandonata, che si copra di erbacce, in modo che passati tre anni, sulla base di una antica legge ottomana, potrà essere definitivamente confiscata in quanto terra incolta». Di recente l’esercito, in seguito i continui ricorsi legali presentati dai palestinesi, si è detto disposto a restituire 250 ettari di terra ma deve fare i conti anche le proteste dei coloni israeliani di Zufin che quei terreni li vogliono per espandere il loro insediamento.
La gente di Jayyus scuote la testa. «Ci dicono che dobbiamo festeggiare - riferisce Abdel Latif Khaled, un abitante - ma noi non siamo stupidi come il protagonista di quella storiella. La conoscete? Un contadino si lamenta perché ha una casa troppo piccola, chiede aiuto ad un amico che gli suggerisce: portati in casa galline, pecore evacche.
L’uomo è perplesso ma lo fa e la sua vita diventa impossibile. Quindi l’amico gli dice: caccia via le galline, poi le pecore e le mucche. Il contadino segue l’indicazione e poi ammette: sì è vero adesso sto molto meglio, ho più spazio in casa. Ecco, questo è quello che fanno gli israeliani, ci tolgono tutto, poi ci ridanno qualche terreno e ci dicono che hanno migliorato la nostra situazione». Da oggi fino a venerdì a Niilin, Bilin, Budrus, Jayyus, Azun e altri villaggi adiacenti al muro si terranno raduni e manifestazioni per ribadire che la battaglia continua, nel nome di quella sentenza dell’Alta Corte di Giustizia che i palestinesi non vogliono dimenticare.de Il Manifesto









   
 



 
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