In quanto belga, e non francese, Isabelle Stengers ama ricordare ai suoi interlocutori che la esse finale del suo cognome va pronunciata. Il suo non è un vezzo nazionalistico, ma è un avvertimento umoristico a diffidare del rapporto troppo diretto che i cugini francesi e, più in generale, i laici, gli illuministi e i materialisti hanno con l’universale. Un’attitudine critica verso l’universale emersa nell’intervista, avvenuta durante il Festival della filosofia di Modena, durante la quale ha tenuto ad abbassare i toni enfatici che tanto la filosofia, quanto la scienza, adottano quando si occupano dei problemi che evocano temi come la vita, il progresso e la storia. Sin dalla pubblicazione, nel 1979, de La nuova alleanza, il libro scritto con il Nobel della chimica Ilya Prigogine, che l’ha resa nota e apprezzata come filosofa della scienza, Stengers non ha mai smesso di criticare le forme di perentorietà usata dalle scienze rispetto alle altrescienze, dei saperi tradizionali rispetto ai saperi cosiddetti minori, degli esperti rispetto ai cittadini, del potere rispetto all’innovazione. Il suo impegno si è in seguito sviluppato su due fronti: ricordando ai saperi dominanti le condizioni materiali e storiche delle verità trattate come assolute; oppure prestando voce alle culture tradizionali (le streghe), alle pratiche scientifiche scartate a beneficio delle scienze sperimentali (l’ipnosi). «La scienza - afferma Stengers - tende a cancellare il conflitto che la oppone al reale in nome di una politica della legge e dell’ordine. Per capirlo, basta leggere La s truttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn: ciò che la scienza moderna insegna agli scienziati è risolvere problemi "normali", rompicapi, puzzle per poi passare ad un altro "paradigma". Il problema è, invece, il modo in cui gli scienziati guardano i fenomeni, al modo in cui la scienza dichiara "reale" un fenomeno piuttosto che un altro, al modo in cui unapratica viene definita "scientifica" rispetto ad un’altra pratica giudicata "non scientifica". La rappresentazione di un fenomeno scientifico è un’invenzione politica. A me, questa invenzione, m’interessa nella misura in cui non si colloca in un orizzonte in cui bisogna garantire un ordine ed una gerarchia tra la realtà rispetto all’immaginazione, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere». Nelle sue opere emerge sempre una tensione costante in direzione di una lettura politica delle scienze, e in particolare verso un’analisi politica del rapporto tra i poteri e i saperi. Quali sono le ragioni profonde di questa lettura? Sono molti i significati che possono essere attribuiti alla parola «politica», almeno quanti sono i modi per parlare della relazione tra scienza e politica. Il problema deve essere affrontato ad un livello generale: chi ha il diritto di parlare di cosa? Prendiamo Galileo. Lui ha negato l’autorità di una determinata rappresentazione scientifica,ispirata alla Bibbia, di stabilire la legittimità di un fenomeno. La scoperta dell’astronomia è stata un evento politico che ha imposto un nuovo tipo di sapere, ha contestato l’autorità della Chiesa in nome di un’altra autorità, quella della scienza sperimentale. Galileo ha creato nel suo laboratorio un evento positivo che ha creato un nuovo conflitto tra divere rappresentazioni del mondo, e quindi tra pratiche scientifiche: quella ispirata alla teologia e quella elaborata nei laboratori. La scoperta di Galileo ha portato anche alla luce l’elemento fondamentale delle scienze sperimentali: il meccanismo di esclusione rispetto ad altre pratiche non scientifiche. Lei ha tracciato una vera e propria genealogia di questo processo attraverso il quale un sapere «maggiore», in particolare quello delle «scienze dure» come la fisica, «squalifica» i saperi «minori». È proprio questo il risultato dell’evento politico di cui lei parla? Ho affrontato questa genealogia deisaperi scientifici a partire dal punto di vista di ciò che essi rifiutano. Questo rifiuto è dovuto al fatto che ai cosiddetti saperi scientifici «minori» viene negata la possibilità di provare la veridicità dei fenomeni di cui si occupano. Le cosiddette scienze maggiori sono, come del resto hanno detto Gilles Deleuze e Félix Guattari, scienze che non studiano un processo in un paesaggio concreto. Hanno imposto l’esigenza della prova e credo che essa sia stata l’arma più importante usata dalle scienze sperimentali per individuare i fenomeni al fine di separarli dal mondo, «purificandoli», prendendo in considerazione la loro astrattezza e non il loro rapporto con altri fenomeni. Ho definito questo processo nei termini di una strategia di squalificazione quando mi sono occupata della storia della commissione nominata da Luigi XVI per verificare l’esistenza del magnetismo animale, uno dei primi tentativi di studio dell’ipnosi. È stato il primo episodio eclatante, avvenuto poco prima dellarivoluzione francese, nel quale gli scienziati sperimentali hanno definito i criteri di legittimità di un fenomeno usando la prova come un’arma di guerra per squalificare la pratica scientifica del magnetismo che, da allora, è stata considerata una «scienza minore». Intende dire che c’è stato un momento, nella storia delle scienze moderne, in cui la razionalità è stata concepita come strumento di governo e non solo come analisi del reale o dispositivo di innovazione? È una duplicità presente sin da Galileo ma che si manifesta a partire dall’evento che le ho raccontato. Una volta squalificata l’autorità dell’ipnosi presso la popolazione, quei commissari la destinarono al disprezzo, dichiarandone l’inutilità ai fini scientifici. Il mesmerismo non provava nulla, quindi non esisteva. La commissione degli scienziati nominata dal re instillò la paura dell’irrazionale, di ciò che non può essere provato. Da allora, l’ipnosi è una pratica da ciarlatani, chi la usa vienecondannato in senso politico e morale. Questa decisione segna, in un certo senso, la fine dell’Illuminismo, nel senso che da allora la scienza è stata usata sempre più spesso per governare l’ordine pubblico. Quanto agli scienziati, essi iniziano a vivere il proprio ruolo in maniera dualistica: da una parte, affermano la loro libertà di ricerca ma, dall’altra parte, diventano a tutti gli effetti i guardiani dell’ordine costituito. Lei ha una formazione scientifica, poi ha scelto la filosofia. Una volta ha sostenuto che la chimica le ha insegnato l’arte della mescolanza, così come Deleuze le ha insegnato l’arte dell’incontro. Da questo lei ha dedotto un modello per la scienza. Vorrei sapere quale modello oggi trae per la politica. Per capire il rapporto tra filosofia, scienza e politica bisogna innanzitutto sottrarsi all’esercizio dell’autorità. A me non interessa introdurre una gerarchia nei rapporti tra le pratiche politiche e scientifiche, quindi un principiodi ordine, o un equilibrio statico, che impediscono il divenire di tali pratiche. Si tratta, al contrario, di stabilire un’ecologia tra le pratiche scientifiche, qualcosa che ho definito nei termini di una farmacologia. Rispetto alla nostra tradizione filosofica e scientifica che ha in odio ogni forma di mescolanza e considera i fenomeni solo in maniera netta e distinta, credo che bisogna adottare questa prospettiva. Questo concetto è stato introdotto da Jacques Derrida, il quale ha spiegato che la scrittura è un pharmakon, una forma di dosaggio della follia. Io preferisco usare pharmakon nel senso tradizionale, quello della medicina. Nella nostra tradizione, sin da Platone, i pharmaka , queste cose pericolose che richiedono un’arte di dosaggio, sono stati squalificati a beneficio dei principî garanti del bene e del vero. L’arte del dosaggio obbliga, al contrario, a trovare un nuovo rapporto tra pratiche scientifiche e pratiche non scientifiche. Essa insegna che le cose non si dannomai in maniera buona o cattiva, razionale o irrazionale. L’ho capito quando ho lavorato, prima in Olanda, poi in Francia, con le associazioni di autosostegno dei consumatori di droghe. Mi sono trovata davanti ad un evento che investe sia la politica, sia i saperi scientifici. Non è possibile pensare il loro ruolo nella società senza porsi il problema democratico per eccellenza: la produzione attiva di saperi da parte dei gruppi che si impegnano politicamente a partire dalla propria situazione. In questi casi, gli scienziati e gli esperti sono stati obbligati a negoziare politicamente l’uso dei propri saperi con i gruppi interessati. Questa negoziazione è stata il risultato di un’intelligenza collettiva che è la forma ideale in cui il pharmakon viene usato. Essa ha permesso di connettersi ad altre idee e ad altre pratiche, di sperimentare nuove connessioni al di là delle gerarchie esistenti tra le pratiche. Lei non ha mai nascosto il suo impegno politico a favore dellasinistra. Prima con i Verdi, poi con la Sinistra Unita in Belgio. Le domando, infine, qual è il contributo delle scienze sperimentali per spiegare la sua crisi attuale? Le scienze sperimentali potrebbero spingere la sinistra a pensare un accordo che non deriva da nessuna soggezione a un’autorità, ma al contrario dalla possibilità di affermare un disaccordo per risolvere un problema comune. È quello che ho imparato dagli scienziati: i conflitti tra le interpretazioni di un fenomeno sono secondari rispetto al problema che li ha messi insieme. La possibilità di risolvere tale problema è più forte di ciò che li divide. Ciò che dovrebbe interessare la sinistra sono i problemi che spingono a pensare, producono un divenire. Mi piace molto la definizione che Deleuze ha dato nel suo Abecedario : chi è di sinistra non parte da chi è vicino, ma da chi è lontano. Questo significa sentirsi responsabili per chi ha perso il lavoro, per chi subisce un’ingiustizia. Ma significa anchepensare come comporre un mondo in comune, un problema che obbliga ad un nuovo rapporto con la natura e non solo con gli umani. Per questo la sinistra non dovrebbe schierarsi con le vittime, in quanto vittime, ma sostenerle per ciò che esse possono diventare oltre la loro identità di vittime.de Il Manifesto
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