È esperienza abbastanza comune, da fanciulli, quella , rivisti a distanza di tempo dagli adulti, di sentirsi dire :«Come ti sei fatto grande!» Affermazione consueta che poteva risultarci anche strana. La stranezza dell’asserto nasceva dal fatto che ci sentivamo sempre gli stessi. Eppure non era così. Eravamo in una continua crescita e trasformazione fisica, quotidianamente impercettibile. Noi, però, ci vedevamo ogni giorno! Solo osservandoci ad opportuna distanza di tempo il fenomeno si sarebbe palesato con evidenza. Un fenomeno che, altrimenti, come quegli adulti, potevano rivelarci solo fotografie e filmati. Situazioni del genere, che sicuramente si perpetuano da secoli, sono chiara prova dell’importanza della memoria, e della memoria più precisa, ai fini di poter avere una piena coscienza di sé in confronto a ciò che si è stato; punto di partenza per un corretto giudizio critico e comunque uno sprone a progredire, sia se prima si era migliori(perché dimostra che lo si è stati e quindi lo si potrà essere ancora), sia, ovviamente, se si è migliori adesso (perché dimostra che si possiede la facoltà di evolvere). È quanto vale anche per intere comunità. Tra le maniere più incisive per annichilire un uomo o una intera popolazione è distruggerne l’identità storica e con essa la stima di se stessi necessaria per voler intraprendere qualunque proficua iniziativa, oltre al fatto di far perdere così al mondo intero lezioni di civiltà anche ragguardevolissime. Si pensi già solo a ciò che la conquista del continente americano ha fatto delle grandiose civiltà autoctone. Ed è cosa che, similmente, avviene ancora oggi, sotto i nostri occhi! Colonizzazioni economiche e culturali devastano patrimoni civili anche antichissimi ed estremamente preziosi. I paesi asiatici, ad esempio, assorbendo passivamente invadenti valori occidentali, per più versi anche fortemente deleteri, vanno perdendo ogni giorno di più la loro identità piùautentica ed il loro più genuino contributo al mondo, architettonico, filosofico e di altra sorta. L’Italia, incontestata culla secolare della migliore arte dei suoni, oggi si ritrova a scimmiottare leggere modalità musicali d’oltreoceano in maniera per lo più acritica e consumistica (paradigmatica l’ironica canzone “Tu vuò fa’ l’americano” di Renato Carosone e Nicola Salerno), mentre gli stessi paesi esportatori di un tale genere di musica coltivano contemporaneamente, ben meglio di noi, la più alta, secolare tradizione sinfonica, cameristica ed operistica. Nel 1985, a trecento anni dalla nascita di Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel e Domenico Scarlatti, il mondo celebrò unitamente questi tre geni; nel 2007, a duecento cinquanta anni dalla scomparsa dello straordinario musicista napoletano, la sua città non si degnò di ricordarlo più di tanto. Talvolta i luoghi natali di tanti indiscussi intelletti versano nel disagio e nell’abbandono civile, esportando solo unaimmagine delinquenziale o comunque di degrado, infingardaggine, inettitudine. Né gli stessi abitanti, nel loro intimo, se ne dissociano. Tre secoli fa, il 10 settembre 1714, ad Aversa, presso Caserta, nasceva Niccolò Jommelli, figura significativa di quella esemplare esperienza culturale che fu il Settecento musicale napoletano. Insigne operista, studiò a Napoli sotto la guida di alcuni dei principali maestri della gloriosa scuola partenopea; li sopravanzerà per la serietà delle concezioni artistiche e per la profonda dottrina musicale. Autore di un ammirevole requiem, amico di Pietro Metastasio, di cui musicò più libretti e che della sua arte a Vienna disse «ornata musica che ha giustamente sorpresa e incantata la città e la corte», fu nelle maggiori città italiane e d’Europa, direttore di un conservatorio a Venezia, maestro di cappella in San Pietro, a Roma, ed a Stoccarda. Wolfgang Amadeus Mozart, quattordicenne, dopo l’ascolto dell’opera “Armida abbandonata”, ebbe a scrivereche «gli era piaciuta» e che «era scritta molto bene». Secondo l’autorevole giudizio di Massimo Mila: «Jommelli fu, col Traetta, uno dei pochi musicisti coscienziosi e seri che, perfezionando l’opera di Hasse, trassero l’opera italiana del Settecento dalla frivola retorica e dal virtuosismo canoro ond’era infestata, avviandola verso quell’ideale di perfezione drammatica che teorici illustri come l’Algarotti auspicavano, e che Gluck compirà. Scarsamente portato al genere comico, predilesse soggetti altamente tragici e passionali, oppure austeramente religiosi; e una grande robustezza di dottrina musicale dava prestigio e autorità alle sue ambiziose aspirazioni». Secondo la competente opinione di Giulio Confalonieri: «Niccolò Jommelli anche per le facoltà melodiche assai superiori a quelle di Hasse, rimane con Traetta il più grande nome del melodramma settecentesco indipendente dall’influenza gluckiana; sì che assai meritorio sarebbe il riesumare una delle sue opere più felici come“Demofoonte”, “Didone”, “Olimpiade”, “Ciro” o “Fetonte”. Orbene, casa è stato fatto in questi giorni, a tre secoli dalla nascita di questo artista, se non per celebrarlo, almeno riportarlo alla memoria collettiva? D’altronde tutta l’Italia è stato ambito premio e meta di pellegrinaggio didattico musicale. Nella nostra penisola furono Mozart, Debussy, Wagner, Liszt, Ciaikovskij ed altri, attinsero stilemi, intere melodie, e crearono poi capolavori ispirati dalla nostra atmosfera. Nelle nostre terre sono nati, e si sono sparsi per il mondo, forme musicali nuove, magnifici strumenti, eccezionali interpreti, meravigliosi esempi di emozionante creatività. Dovremmo essere i primi a saperlo. Forse siamo tra gli ultimi. Finisce così con lo svanire la caustica valenza di “Tu vuò fa’ l’americano”. Il mondo stesso, come mostruoso organismo vivente che si cibasse delle sue stesse membra, finisce, in questo modo, con l’annichilire se stesso.
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