Elezioni Usa, la sconfitta di Obama: il Congresso nelle mani dei repubblicani
 











Il momento della verità è arrivato alle 23.24 della East Coast (le 5.24 del mattino in Italia). A quell’ora i repubblicani hanno vinto il seggio di senatore nell’Iowa, portando a quota 6 il loro guadagno al Senato: oltre la soglia della maggioranza assoluta. Due minuti dopo passava alla destra anche il seggio della North Carolina portando a 7 senatori il guadagno dei repubblicani e consolidando la loro maggioranza assoluta.
Non c’è stata la sorpresa. Niente rimonta democratica dell’ultima ora. Le elezioni di midterm sono andate secondo il copione. E’ un’avanzata della destra: i repubblicani consolidano la loro maggioranza alla Camera (che conquistarono già quattro anni fa), e vi aggiungono anche il Senato. Tutto il Congresso è nelle loro mani. Per la precisione, lo sarà dal gennaio 2015, quando s’insedieranno a Capitol Hill i parlamentari eletti in questo 4 novembre.
Se Barack Obama aveva avuto la vita dura con una Camera che gli boicottavaogni riforma da quattro anni, ora sarà peggio. Il Senato ha un potere aggiuntivo rispetto alla Camera, quello di confermare o bocciare le più importanti nomine del presidente: membri dell’esecutivo e giudici. La guerra dei repubblicani si estenderà anche alle nomine, quindi, privando il presidente di uno degli strumenti per cambiare gli equilibri di potere.
Mitch McConnell, rieletto trionfalmente nel suo seggio di senatore del Kentucky, diventerà il leader della maggioranza al Senato. Insieme col suo collega John Boehner, lo Speaker of the House che da quattro anni guida la maggioranza repubblicana alla Camera, questi due devono decidere cosa fare dell’enorme potere che hanno a disposizione. Il sistema politico americano è “meno presidenziale” di quanto appaia al resto del mondo. Le leggi più importanti, nuove tasse o nuove spese, non possono passare senza il sì del Congresso.
La politica economica, con l’eccezione della leva monetaria controllata dalla Federal Reserve, non puòessere decisa alla Casa Bianca da sola. Ora gli ottimisti sperano in un miracolo: che i repubblicani forti della loro vittoria diventino improvvisamente più pragmatici, più moderati, e comincino a cercare dei terreni d’intesa col presidente. I temi ci sarebbero. La riforma della normativa fiscale, per semplificare le tasse, ridurre le agevolazioni e i privilegi ingiustificati, chiudere gli spazi per l’elusione delle multinazionali e al tempo stesso ridurre la pressione fiscale complessiva: sugli obiettivi generali democratici e repubblicani potrebbero trovare dei punti di contatto.
Un altro possibile accordo interessa da vicino gli europei, riguarda il nuovo trattato di libero scambio transatlantico. Obama lo vuole, convinto che farà bene alla crescita e all’occupazione. I repubblicani sono tradizionalmente liberoscambisti, potrebbero trovare qui un’occasione di cooperazione con la Casa Bianca. Ma vorranno farlo? Da una parte gli eletti della destra sentono il “richiamo dellaforesta”, cioè la base più faziosa. Non bisogna dimenticare che molti di questi senatori e deputati repubblicani sono stati eletti al termine di una selezione particolare: prima hanno dovuto vincere le primarie di partito spesso dominate dal Tea Party e altre componenti della destra fondamentalista. C’è anche da pagare il debito con i grandi finanziatori, le lobby del petrolio o di Wall Street o del capitalismo sanitario privato. Per alcuni di questi parlamentari, accettare il dialogo con Obama è come parlare col diavolo in persona. Rischiano la propria sopravvivenza politica, in un partito alla deriva verso destra. Ma d’altra parte, seguire la tentazione del muro contro muro può comportare una disfatta nel 2016 quando si tornerà a votare: per il prossimo presidente e un’altra tornata legislativa. L’elettorato si pentirebbe rapidamente di aver dato la maggioranza ai repubblicani, se questi dovessero usarla solo per peggiorare lo stato di paralisi che attanaglia il sistema politico diWashington. Da oggi, questo dilemma del partito repubblicano s’intreccia con la ricerca di un valido candidato presidenziale. Le primarie sono ancora lontane, certo, ma il problema della destra è l’assenza di un leader autorevole della statura di Hillary Clinton.
In quanto a Obama, al momento la sua presidenza si avvia a un crepuscolo mesto. I sondaggi misurano da molti mesi un tracollo di popolarità. Lo stesso presidente appare quasi demotivato, disilluso, consapevole di non essere riuscito a sfondare nella sua missione più ardua: riformare il sistema politico stesso. Il blocco delle istituzioni peggiora, così come si aggrava la commistione tra denaro e politica: sono state le elezioni midterm più costose della storia. Ma il presidente resterà pur sempre il dominus della politica estera nella superpotenza mondiale. Guerra e diplomazia restano essenzialmente delle prerogative della Casa Bianca, in quel campo l’influenza del Congresso è più modesta. Le grandi crisi del momento, dallaSiria all’Ucraina, continueranno ad assorbire molte energie e molta attenzione di Obama.
Infine il presidente potrebbe accentuare una scelta già fatta negli ultimi mesi: usare di più i poteri esecutivi anche sul terreno dell’ambiente. Di fronte a una destra negazionista, che rifiuta perfino l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico, non c’è intesa possibile sulla carbon tax o altri limiti alle emissioni di CO2. Perciò Obama ha già sperimentato un’opzione alternativa: intervenire aggirando il Congresso, con l’uso estensivo dei poteri regolamentari della Environmental Protection Agency. Se riuscisse a lasciare un’eredità positiva sull’ambiente, insieme con i matrimoni gay e la riforma sanitaria, Obama potrà sperare che il giudizio della storia verso di lui sia meno severo di quello dei suoi contemporanei. E magari alla fine qualcuno ricorderà che sotto di lui l’America è uscita dalla più grave crisi dopo la Grande Depressione degli anni Trenta.FedericoRampini,repubblica

 









   
 



 
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